Magari (2020) segna il debutto alla regia di Ginevra Elkann, che sceglie di raccontare la famiglia da una prospettiva intima e personale. Presentato come film d’apertura alla 72ª edizione del Festival di Locarno, il lungometraggio si distingue per la capacità di intrecciare autobiografia e universalità, offrendo uno sguardo delicato sulle dinamiche familiari e sull’infanzia.
Ambientato negli anni ’80, il film segue tre fratelli – Alma, Jean e Sebastiano – che vivono con la madre Charlotte(Céline Sallette) a Parigi. Quando la donna parte con il nuovo compagno per trascorrere le vacanze natalizie, i bambini vengono affidati al padre Carlo (Riccardo Scamarcio), che vive a Roma. Carlo è un uomo affascinante ma inaffidabile, capace di grandi slanci affettivi ma incapace di offrire stabilità. Le giornate trascorse con lui e con la sua compagna Benedetta (Alba Rohrwacher), tra la città e il mare di Sabaudia, diventano l’occasione per scoprire le contraddizioni di un genitore che fatica a crescere e, insieme, le disillusioni e i sogni dell’infanzia.
Il titolo, Magari, richiama proprio i desideri dei protagonisti: il sogno di una famiglia unita, l’attesa di attenzioni che spesso non arrivano, le promesse destinate a restare sospese. Elkann non costruisce una trama lineare, ma un mosaico di momenti: pranzi caotici, litigi improvvisi, scoperte infantili, silenzi che lasciano spazio a tutto ciò che non si riesce a dire. Lo sguardo privilegiato è quello dei bambini, in particolare della piccola Alma, che osserva il mondo adulto con un misto di stupore e disincanto.

Dal punto di vista stilistico, Magari adotta un tono semplice e realistico. La regia segue da vicino i personaggi, senza forzarne le emozioni, lasciando che siano i gesti e gli sguardi a raccontarli. La fotografia di Vladan Radovic alterna i colori caldi delle vacanze al mare a tinte più sobrie, che accompagnano i momenti più intimi della storia. Anche la struttura del racconto riflette questa sensibilità: procede per frammenti, come una serie di ricordi che ricompongono, pezzo dopo pezzo, lo sguardo dei bambini sul mondo.
Il lavoro sugli attori è uno dei punti di forza del film. Riccardo Scamarcio dà vita a un padre contraddittorio, tenero e fragile allo stesso tempo. Accanto a lui, Alba Rohrwacher porta una presenza concreta e disincantata, che bilancia la sua irrequietezza. Ma il vero cuore del film sono i tre giovanissimi protagonisti, capaci di restituire con spontaneità la rabbia, la vulnerabilità e la tenerezza dell’infanzia.
Magari non cerca il colpo di scena: preferisce la delicatezza. Alcuni nodi restano sospesi, il finale non offre risposte definitive, ma proprio in questa incertezza risiede la forza del film. L’infanzia, sembra dirci Elkann, non è mai un racconto ordinato, ma un intreccio di desideri, paure e illusioni che restano aperti.

A distanza di qualche anno, l’esordio di Ginevra Elkann conserva una freschezza sincera. È un film che parla di famiglia senza cedere ai cliché, e che affronta la fragilità senza drammatizzarla. Un piccolo racconto di formazione che segna l’inizio di una voce autoriale sensibile e già riconoscibile.




