ITA HORROR E HORROR-INSPIRED: LA VALLE DEI SORRISI, LA VITA ACCANTO, LA CACCIA

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Esiste ancora l’horror puro? Forse no, non sono più i tempi del jumpscare fine a se stesso. Di sicuro esiste il cosiddetto elevated horror, e in questi giorni possiamo addirittura vederne in sala uno italiano: è “La valle dei sorrisi” di Paolo Strippoli, proiettato fuori concorso all’82esima Mostra del Cinema di Venezia e già così apprezzato dalla critica da essere investito di una sorta di responsabilità messianica per cui c’è chi parla di “rinascita del genere” in Italia. Il termine, però — che sia elevated o prestige o art horror, insomma quello ibridato con altri generi, dall’intenzione artistica, che si concentra sui meccanismi della psiche umana e spesso incorpora simbolismi complessi — non entusiasma il regista, che ci vede l’implicazione di “tutto un altro horror che ha meno dignità”¹, insomma di un’inferiorità ontologica del caro vecchio genere puro. Eppure il suo film è proprio la definizione di horror elevato: confezionamento esteticamente strepitoso, sceneggiatura curata al millimetro e, soprattutto, genere difficile da definire, con elementi di teenage drama e thriller impegnato. Con tutti i cliché del film di paura, naturalmente.

La valle dei sorrisi

Ma andiamo con ordine. Se proprio vogliamo parlare di elevazione e qui ci perdoni il regista possiamo rintracciarla proprio nella filmografia di Strippoli, partendo dalla sua prima produzione importante, quel “A classic horror story” (2021, co-diretto con Roberto De Feo) dal titolo a mo’ di disclaimer — come a dire, non aspettatevi altro — che ricalca lo schema iper-familiare dello slasher in cui muoiono tutti uno per uno, con immancabile final girl (la mitica Matilda Lutz di “Revenge”, 2017, Coralie Fargeat).

A classic horror story, 2021.

In “Piove”, del 2022, al gusto meta-cinematico per le convenzioni di genere (stavolta un’apocalisse simil-zombie) si aggiunge un impianto drammatico e allegorico di ritratto della società contemporanea con connotazione local. In una Roma dai tombini fumanti che somiglia a Gotham City, l’epidemia che trasforma in mostri catramosi va in scena di pari passo allo sfacelo umano della nostra realtà urbana, alienata e indifferente, infettata dall’incomunicabilità familiare, che produce un protagonista “ribelle senza causa”.

Piove, 2022

Ed ecco che ne “La Valle dei sorrisi” il salto in termini di raffinatezza tematica è ulteriore. Rispetto a “Piove”, il trigger soprannaturale del terrore è disincarnato; non più un oggetto materiale alla “Blob il fluido che uccide”, ma un affare psicologico e che più umano non si può: il trauma, o meglio, l’oscillazione tra il dolore e una misteriosa, innaturale felicità che sembra regnare tra gli abitanti di un’isolata cittadina di montagna. E il focus dell’azione è tutto sulle dinamiche relazionali tra i personaggi, semmai complicate dall’elemento soprannaturale. Verrebbe da dire che gli stilemi del genere si sono fatti sempre più di (pregiatissimo) contorno, nelle storie di Strippoli, che colpiscono a prescindere da neck snap, possessioni, scene di ispirazione zombie e momento slasher. Che ci sono tutti quanti, ne “La valle dei sorrisi”, fino all’immancabile climax “cafone” e incasinato come da manuale.

Il film è stato paragonato nientemeno che a “Midsommar” (Ari Aster, 2019) anzitutto per analogie di trama: il contesto è quello della comunità di “invasati” che accoglie lo straniero, isolata in mezzo alla natura, con caratteristiche di utopia sociale e di setta (qui la matrice del culto è cattolica, invece che folk-pagana). Curiosamente, poi, a inizio film ci sorprende una citazione probabilmente involontaria², ma un po’ troppo gustosa per non lasciarci con il dubbio: l’apparizione improvvisa di un’architettura a triangolo adibita a edificio del rito; uncanny, maestosa, gigantesco segnale di pericolo, come nel capolavoro di Aster.

Di certo, tecnicamente, il film ha in comune con le produzioni scandinave quello zoom in esterna lento, inquietante, alla “Thelma” (Joachim Trier, 2017) e alla “Innocents” (Eskil Vogt, 2021), divenuto ormai marchio irrinunciabile dell’horror un po’ ovunque.

Che, nel caso del film di Strippoli, è solo la minima parte di un armamentario stilistico variegato e d’impatto: la cura maniacale della palette espressionista, azzurra e rosso-arancio (tranquillità artificiale “da depliant” vs perdita di controllo); il grandangolo con distorsione a cuscinetto, che amplia gli spazi in modo straniante (in alcuni casi ricreando, con le linee verticali distorte, il motivo a triangolo); e una varietà di altri effetti allucinati come il focus centrale che blurra pesantemente il resto dell’inquadratura e frame ruotati di 90°. Nelle transizioni ma non solo, effetti sonori abbondanti e pervasivi, violenti, “da risonanza magnetica”, si accompagnano al loro corrispettivo visivo, cioè lampi di luce accecante.

Forse, a entusiasmarci è proprio questo vestito internazionale su un universo italiano verosimile: l’ora di educazione fisica con il prof scazzato, il tavolo del bar con gli habituée anziani che intonano canti local, la vita di provincia con le signore devote che tengono in casa un quadro del santo preferito; dettagli che ci parlano direttamente.

Anche in virtù di questa familiarità di situazioni e personaggi, “La valle dei sorrisi” è un drammatico contemporaneo che cattura come pochi; addirittura wholesome come si dice in gergo social almeno fino a un certo punto. Tifiamo per il protagonista devastato dalla vita, per l’adolescente isolato dal suo ruolo imposto, per l’amicizia tra i due che sembrerebbe migliorare le vite di entrambi; per la ragazza che reagisce al proprio trauma come può. Vorremmo abbracciare (pun intended, mi scuso) persino quell’altro padre, un impeccabile Paolo Pierobon diviso tra il desiderio di tenere il figlio sotto controllo per il suo bene e lasciarlo invece vivere nel mondo, tema evergreen da dramma familiare.

C’è l’elemento queer. C’è il tema del dolore che risuona particolarmente con la sensibilità contemporanea, con il disastro ferroviario del 2019 che non può non ricordare la pandemia. C’è il riferimento evidente alle dipendenze, dove i mostri sono a tutti gli effetti persone in crisi d’astinenza; che si trascina dietro il discorso, mai così popolare come oggi, della salute mentale, delle controindicazioni delle scappatoie facili dalla sofferenza.

Un horror che piacerà anche ai non amanti del filone, dove ogni shot è al posto giusto, da vedere anche solo per scovarne i minuziosi richiami interni e foreshadowing³.

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Ma si può dire che l’horror nostrano, ultimamente, stia dando segni di buona salute qua e là anche come elemento contaminante, con alcune produzioni thriller drama che pescano dal genere con risultati convincenti.

È del 2023 il sontuoso e tecnicamente impeccabile “La Vita Accanto” di Marco Tullio Giordana, con un piede nel gotico padano e l’altro nel teenage bildungsroman contemporaneo, quello su giovani outsider in cerca di sé tra conflitti familiari ed emarginazione (un filone ancora molto prolifico a 15 anni da quel “La solitudine dei numeri primi” di Saverio Costanzo che fece esplodere il trend). Qui la protagonista, bambina riservata e pianista talentuosa, è bollata come freak per la presenza di un angioma sul suo viso, “la macchia”, perno narrativo e simbolico della vicenda (nonché trailer material) e invenzione totale degli sceneggiatori Giordana-Bellocchio-Malatesta⁴. Il marchio del diavolo, il “mostro”⁵, la villa di una distinta famiglia del Nord negli anni ’80… ma è Pupi Avati?

…Non proprio. Anche se il film, almeno al suo inizio, è praticamente un manuale (riuscitissimo e de-trashizzato⁶) di atmosfere e stilemi del nostro ventennio d’oro dell’orrore. Troviamo il legame tradizionale del brivido con le dimore sontuose e lo stile di vita aristocratico qui le finestre della casa non ridono, ma affacciano inquietantemente sui canali impetuosi di un fiume dei suicidi, il Bacchiglione, di cui avvertiamo il richiamo sinistro in soggettive con zoom lento e personaggi che parlano unicamente con la loro legittima inflessione regionale. Una boccata di contemporaneità, quest’ultima, perfettamente in linea con il recente trend localista del cinema made in Italy, deciso da un po’ a liberarsi dell’onnipresenza della dizione romana.

Immagini archetipiche dal sapore argentiano le panoramiche su ambientazioni immani, lussuose e decadenti; l’apparizione di una spettrale figura femminile da dietro una finestra (una favolosa Valentina Bellè nel ruolo di madre pazza) si affiancano a tropi dell’horror generico, anche made in USA: il classico creepy diary pieno di vaneggiamenti ossessivi, sanguinosi e incomprensibili, che i sani di mente capiranno solo troppo tardi; e quello del personaggio delirante “che alla fine ha ragione”, qui fuso con il tropo gotico della bellissima dama disturbata che si aggira farneticando per il castello⁷ (sempre Maria).

Non un horror, però di certo non secondo Giordana, che si limita a parlare di presenza di un “elemento noir” ma un’opera autoriale che si avvia con gli stilemi riconoscibili del genere per condurne lo spettatore progressivamente fuori. Mentre la fotografia si rischiara, gli ambienti si fanno meno pomposi e la narrazione si emancipa dai cliché alla Pupi Avati, seguiamo Rebecca in una graduale risoluzione “illuminista” dei propri traumi e misteri di famiglia. Il pugnale d’argento, la camicia da notte da fantasma, il fiume dei suicidi, statue di nani che ghignano⁸: capiamo che era tutto un sogno, quello del sonno della ragione, a livello collettivo, nonchè della malattia mentale (che trova la sua culla nella famiglia borghese – ma questo, cinematograficamente, lo sappiamo almeno da “I pugni in tasca”) a livello individuale.

Progressione che corrisponde allo shift tra due protagoniste: la prima resterà stilisticamente intrappolata nella dimensione espressionista e allucinata del gotico padano, governata da inquietudini medievali (sempre latenti nell’inconscio collettivo) che inevitabilmente “producono mostri”, in questo caso madri folli capaci di crudeltà verso una figlia “macchiata”. Una Maria che, come da tradizione horror, partorisce, almeno ai propri occhi, il frutto del maligno, con un marito ginecologo – un sofferente Paolo Pierobon – che rappresenta una beffa vivente, l’illusione di un’impossibile vittoria della ragione sui mostri, della scienza contro il perturbante.

Inspiegabilmente non candidato ai David di Donatello né per la scenografia, né per i costumi o acconciature, il film è anzitutto una festa per gli occhi, con una curatissima grandeur anni ’80 che sconfina nell’estetica da telenovelas (nota personale: in sala, il film è stato particolarmente apprezzato da diverse signore over 70, che oltre a un ottimo thriller hanno rivisto acconciature, fasti e intrighi familiari come ReteQuattro comandava). Il film eccelle nell’espressionismo misurato dell’atmosfera, nella sceneggiatura indubbiamente d’autore e nella freschezza della connotazione local; il tutto, impreziosito dal dettaglio delle vere performance al pianoforte di Beatrice Barison e Sonia Bergamasco.

D’altra parte, risulta difficile l’impresa di dare continuità a due protagoniste interpretate da tre attrici diverse. Qualcosa dell’aura di Sara Ciocca (giovanissima ma già un’habituée dell’horror drama “regionale”, protagonista anche nel recentissimo “Invisibili” di Ambra Principato) non sopravvive nell’interpretazione della pur brava Beatrice Barison alla sua prima prova attoriale in assoluto; idem per il personaggio di Lucilla, dove la giovanissima Flora Zambello risulta più memorabile delle sue controparti adulte.

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Nel thriller psicologico “La caccia” di Marco Bocci (2022), incentrato sull’incontro per questioni di eredità tra quattro fratelli in crisi esistenziale-economica, ci troviamo spiritualmente da tutt’altra parte, e cioè, in qualche modo, a fine millennio.

In alcune sequenze topiche del film, Bocci (classe 1978) sfodera tutto l’armamentario del montaggio frenetico e allucinato anni ’90: jump cut e fast cutting di atmosfera, non narrativi ma tesi piuttosto a esprimere la deriva bipolareggiante, morale e psicologica, dei protagonisti. Anche a costo della sospensione del meccanismo realista, come nelle scene della cena di Natale, in cui, mescolato a shot narrativamente coerenti dei protagonisti che interagiscono tra loro, troviamo un flash dei quattro in posa verso di noi. Narrativamente impossibile, puramente estetico, un attimo di cortocircuito del racconto.

Altri avvenimenti che vediamo, invece, scopriamo poi non essere mai successi, con conseguente messa in discussione di cosa è reale e cosa no, tipica del thriller psicologico che esplose nel periodo. Ed è impossibile non riconoscere, in questa tendenza al viaggio visionario, le influenze dei vari Fight Club, Trainspotting e tutto ciò che era cinematograficamente cool “a target maschile” all’epoca (e in seguito, fino a Nolan e oltre), senza dimenticare il format che ha plasmato i gusti generazionali forse più di tutti, quello del videoclip alternative rock da MTV.

A tratti, però, il massimalismo anni ’90 con colonna sonora urlata a contrasto lascia il posto a shot lunghi, fissi e privi di suoni extra-diegetici. Nel momento topico del film, quello della proposta da cui il titolo, la macchina inquadra i protagonisti da lontano mentre li sentiamo parlare, come a sottolineare il carattere tragico e scellerato dell’accordo, da cui la regia sembra volersi tenere in disparte, arrendendosi all’impossibilità del racconto per immagini delle logiche sinistre della psiche umana.

Tornando all’elemento spiritualmente vintage, le ambientazioni includono alcuni must dell’immaginario millennial come l’open space industrial in cui vive l’artista, e ovviamente i locali notturni, irrinunciabile luogo “dei giovani” di 20+ anni fa.

Al “look and feel” di fine-inizio millennio contribuisce la presenza di due volti iconicamente pop del periodo, Laura Chiatti (la nostra it girl degli anni 2000) e il mitico Filippo Nigro di infiniti film di Ozpetek, magicamente trasferiti in territorio dark.

L’universo tematico, infatti, è classicamente noir: i soldi fanno girare tutto ma non sono mai abbastanza, perciò ciascuno va incontro al proprio fallimento annunciato⁹, il tentativo di comprare la propria serenità. Ma c’è anche un elemento da “dramma mucciniano dove tutti urlano”, nell’arco dedicato al fratello maggiore (sì, è lui: Pierobon, qui nei panni vagamente fantozziani di un everyman dal look “democristiano”). Ed ecco la casa da ricchi, il tavolo della cena intorno al quale va in scena il disastro della famiglia borghese (il vero mostro, ormai l’abbiamo capito, dell’horror contemporaneo) e l’immancabile “sbrocco” finale.

Nonostante la grande varietà di shot length e di inquadrature, da angolazioni classiche a POV shot “sbruffoni”, come quello del carrellino della corrispondenza nell’ufficio, il film è tenuto insieme ottimamente da un’atmosfera visivamente ben definita, prevalentemente notturna, buia anche durante il giorno con fonti di luce accecante in shot: neon, luminarie, fiamme, anche in primo piano. La palette cupa con elementi rosso sangue non sarà “avanguardia pura”, ma contribuisce non poco a un confezionamento di impeccabile coerenza interna.

Pur con le sue ingenuità e già-visti (quell’impossibilità, ancora, di liberarsi dall’immaginario vittoriano: lampi di horror gotico fanno capolino tramite flashback di maniera, con villa di campagna e bimba in vestito merlettato con bambola in braccio) il risultato è elegante, costruito in modo egregio anche grazie all’uso sapiente di dispositivi narrativi naturalmente avvincenti. La voce esterna che legge a più riprese di una fiaba vagamente sovrapponibile agli eventi mostrati — “I quattro fratelli ingegnosi” dei fratelli Grimm — crea la cornice che per un andamento ricorsivo, a episodi, proprio dell’intrattenimento seriale, per cui, presentato il gruppo dei protagonisti, si procede a rivelare di ciascuno la backstory (traumatica). Infine, non si può non apprezzare l’efficacia del concept principale, quello della caccia, trovata geniale per le potenzialità estetiche oltre che allegoriche. È nella pregiata sequenza nel bosco, infatti svolta luminosa en plein air di un film notturno che la regia dà il meglio di sé: shot ravvicinati, che nascondono la visione totale, a trasmettere la sensazione di mancanza di controllo dei cacciatori-prede; inquadrature a distanza che restituiscono un’impressione di sorveglianza, di vittima nel mirino del player di un videogame sparatutto; e poi, nei picchi drammatici, la lente lunga che trasforma gli sfondi intorno ai protagonisti in blob indistinti, isolandoli nella loro personale catastrofe.

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NOTE:

¹ Concetto espresso dal regista in più occasioni. Citazione esatta da: https://youtu.be/rueyCNTA3Ug?si=EVWCtJ3p8zFcaAyx&t=234 — video-intervista di Best Movie Magazine, agosto 2025.

² Di certo il soggetto di Strippoli è anteriore all’uscita di Midsommar, datata luglio 2019: in quel momento era già stato candidato al Premio Solinas, che poi vinse, con il titolo “L’angelo infelice”. Complessivamente, sull’idea alla produzione, il film ha richiesto 7 anni di lavoro.

³ NOTA SPOILER—————————————-Il racconto di Strippoli include almeno due presagi, ovviamente macabri: il compagno skater di Matteo appare in un TikTok mentre posa in modo badass proprio con delle fiamme; la povera madre di Matteo, che cerca di imboccare il piccolo a inizio film, tornerà sullo schermo mentre viene tristemente nutrita in modo simile.

⁴ Nel libro ispiratore, l’omonimo romanzo di Mariapia Veladiano premiato Strega nel 2011, la protagonista presenta una generica “irrimediabile bruttezza”. Il film era originariamente un progetto di Marco Bellocchio, ceduto poi all’amico Giordana.

⁵ A ogni epoca quello che si merita. Come nota Marcello Walter  Bruno, il mostro contemporaneo è “una sorta di handicappato del look” (M.W. Bruno, “Necrologio per la civiltà delle immagini”, in “Videoculture di fine secolo”, ed. Liguori, 1989). Riflesso fisiologico della nuova ossessione dell’umanità per l’apparenza nella civiltà dell’immagine, che ha storicamente soppiantato o ridimensionato quella per la sopravvivenza materiale.

⁶ Il termine è riferito, beninteso, all’effetto naïf e involontariamente comico di alcune tecniche e soluzioni dell’epoca sotto la lente del gusto e delle possibilità contemporanee.

⁷ Online, il tropo ha nome “the Ophelia”: https://tvtropes.org/pmwiki/pmwiki.php/Main/TheOphelia

⁸ Quest’ultima è un’allucinazione letterale di Rebecca, nonché piccolissimo dettaglio cringe — come si dice oggi — sopravvissuto alla depurazione dal trash di cui sopra. Percorrendo la via antistante una famosa villa con statue di nani, la piccola Rebecca ne vede una sorriderle in modo malefico, con un’inspiegabile distorsione digitale che sembra realizzata negli anni ’90. Un effetto, forse, volutamente vintage(?). Lo shot è stato inspiegabilmente incluso nel trailer.

⁹ “Come falene attratte da una fiamma”, per usare le parole di Robert Towne, sceneggiatore di “Chinatown” (1974) diretto da Roman Polanski. Nel noir tradizionale i protagonisti sono “difettosi”, incapaci di resistere a quell’avidità che li porterà a compiere il proprio destino tragico. “In cinema noir the characters are fated in one way or another; they are like moths and flames […] There is some flaw in them that drives them to their fate, even as they try to avoid it; not just a dark world where they get kind of beaten up” – Dal video-documentario di Marc Cousins “The Story of Film: an Odyssey”, Episodio 4, 26’50’’—28’15’’.

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