TOPOGRAFIA, DESIDERIO E IMMAGINI: LE PROPOSTE DI BOCCASSINI E WIESINGER

Autore:

Condividi su:

Desire, si intitola l’ultima fatica di Giuseppe Boccassini – presentata in anteprima alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, dove ha anche vinto una menzione speciale. O meglio, desire con la lettera minuscola, che non è solo una scelta grafica ma nasconde – in bella vista, come ci insegna il Poe della lettera rubata – un’intenzione poetica: la scelta per un cinema “minuscolo”, contrapposto ad uno “maiuscolo”. Non la scelta per un cinema laterale, vagamente “sperimentale”, ma per una visione del cinema autarchica: per un cinema il cui unico “padrone” – arché – è la propria, immanente normatività; la cui origine – arché – non è fuori ma nelle immagini.

Di qui il peculiare atteggiamento di Boccassini verso le immagini d’archivio. Approccio radicale, che servirebbe a poco ricondurre alla pratica – tanto in voga – di risemantizzazione delle immagini. Certo, anche in Boccassini le immagini d’archivio – nel caso specifico di desire, le immagini del melodramma – parlano il linguaggio dell’inconscio: mostrano, attraverso un lavorio di smontaggio, ciò che quelle immagini celavano, o meglio ciò che pulsava ai loro confini. Allo stesso tempo – contro la voga found footage – Boccassini non rimane sedotto dall’archivio, anzi tenta di negarlo. Non si attarda in tortuosi e labirintici “storicismi”. Certo, desire rilegge la storia del melodramma facendone emergere l’invisibile; in un qualche modo desire racconta – ma non narra – un’altra storia del melodramma: la storia di un desiderio – il desiderio della donna – sconfinante l’immagine classica del melodramma. Tutto vero, ma siamo ancora nell’archivio non oltre nella sua negazione. Siamo ancora nella storia non nell’archetipo.

Negare l’archivio significa, radicalmente, negare la storia. Non a caso rispetto al precedente diacronico ragtag Boccassini, in desire, si sbarazza di ogni approccio cronologico. Anche se, va ricordato che al netto del montaggio rigorosamente diacronico, in ragtag l’immagine è pur sempre sub specie aeternitatis – si tratta di un “aionologia”, in cui Boccassini rinuncia ad una lettura strettamente storica del noir insistendo sull’eterno ripresentarsi (aion) del cliché. In desire apparentemente cerca la sincronia fra anni e luoghi distanti: sembra che il Giappone di Mizoguchi e l’Inghilterra di Powell raccontino lo stesso desiderio; ed è così, desire racconta la stessa altra storia del desiderio. Un’altra storia che abbraccia Giappone, Inghilterra – e tutte le altre epoche e zone geografiche smontate dal film – allo stesso modo. Ma la posta in gioco è più radicale. Negare l’archivio significa negare la storia come immagini della storia, negare le immagini come storia delle immagini ed inaugurare un’inedita, desiderante, topografia archetipica delle immagini.

L’anacronia – da intendere letteralmente come lotta contro il tempo – di desire descrive, traccia anzitutto i luoghi in cui il desiderio si incarna. Topoi – come ragtag lavora sui cliché, desire sui topoi – ogni volta difformi e polimorfi, al netto dei rimandi e delle ripetizioni. In questo modo, liberata dal diktat della durata, l’immagine è in grado di liberarsi dal rapporto causa e effetto – a cui, mutatis mutandis, potremmo sovrapporre pure quello di significante e significato – che determina, dal punto di vista narrativo – e quindi anche necessariamente temporale – il succedersi delle immagini. Pertanto, per quanto paradossale possa essere, in desire proprio perché viene meno ogni trama, ogni nesso causale e viene negato l’archivio, come forma d’organizzazione delle immagini, le immagini “d’archivio”, ricondotte ad incarnazione topografica, possono finalmente essere quello che sono e che non hanno mai potuto essere stritolate da una normatività esogena, differenze sterili.

Boccassini scolpisce – non il tempo – ma superfici. Topoi infuocati, improduttivi, melodramma di se stessi. Luoghi di cui la cartografia non può appropriarsi con la propria vis gerarchizzante. In desire non c’è nomos se non quello che emerge dalle immagini stesse. Le superfici desiderano; sono configurazione di un desiderio a loro immanente e che allo stesso tempo le trascende tutte. Deflagrazioni permeate e allo stesso tempo attraversate da un desiderio sconfinante ed incipiente. Sono scrittura archetipica. Letteralmente, scrittura di quella forma – tipo – che è la loro origine – arché. Un’origine non dislocata in un altrove – qualsiasi forma assuma, trama, significato, mal d’archivio – ma endogena: scrittura del loro intrinseco e non appropriabile desiderio en arché.

Time is out of joint: topografia politica del fotogramma

Sempre nel concorso di Pesaro – sempre vincendo un premio, anzi due –  è stato presentato un altro film che, di primo acchito, potrebbe sembrare il più distante dal lavoro di Boccassini contro le immagini d’archivio. Ma se è vero che desire sceglie la topografia e non la storia, allora l’operazione di 12 asterisci di Telemach Wiesinger – film di luoghi, spazi, vedute – è tutt’altro che distante dalla proposta di Boccassini. Wiesinger da decenni viene definendo la sua pratica filmica in un corpo a corpo serrato con la storia del cinema – si pensi solo, in anni recenti, a 1:1 in cui Wiesinger riduce l’immagine stroboscopica, e ancor di più l’immagine come mimesis, al suo grado zero, al suo principiare senza grammatica, sine omni regula. In 12 asterisci l’insistito vedutismo allora non può ridursi solo a soluzione estetica, o ancor meno a stile, ma è una presa di posizione critica nei confronti della storia del cinema: è un risalire la china della storia fino al suo punto di insorgenza, il vedutismo Lumière, per tentare un altro inizio. Se l’inizio della storia del cinema è sotto il segno di kronos, con 12 asterisci invece Wiesinger sceglie per il nuovo cinema i topoi.

“A film poem” lo definisce Wiesinger. Poesia per immagini, o meglio immagini-poesia, immagini che condividono le caratteristiche del verso. Anzitutto la ricorsività – il “ritornello” delle stelle che accompagna i 60 minuti di durata del film – ma soprattutto il senso spaziale che le attribuisce la poesia del ‘900 – del resto il verso è anche un tratto che si dispone, superficialmente, su uno sfondo bianco. Così le vedute di Wiesinger sono lacerti di visibile che si stagliano sull’abisso – ab-grund – del movimento centrifugo da cui provengono e che si dissolvono nel movimento centripeto che le riporta al loro sfondo. Come le lettere si dispongono spazialmente sulla pagina bianca – loro origine sempre sfondata, abisso, che permette l’emersione spaziale del tratto nascondendosi e negandosi in esse – le vedute di Wiesinger si dispongono non tanto come durata ma in una risonanza spaziale di scarti topografici che negano, emergendo, il ritmo cronologico del loro stesso emergere e si danno dunque come pura superficie senza fondo. 

A pulsare nell’immagine non è più il ritmo del tempo ma la presenza dello spazio. In altri termini, riportando l’immagine alla sua materialità topografica Wiesinger fa emergere, con radicalità, l’unità base – ancora una volta ab-grund – del linguaggio cinematografico che non è unità temporale ma disposizione spaziale, il fotogramma. Se di consueto il fotogramma si toglie per lasciar durare l’inquadratura al contrario in Wiesinger il rimosso spaziale dell’immagine, il suo corpo e fuori campo, riemerge e si fissa in una superficie topografica che non nega i Lumière e la storia del cinema ma inizia una storia del cinema già da sempre scritta nelle vedute Lumière e nella successiva storia del cinema ma quasi mai consapevolmente praticata se non all’interno di un cinema radicale, come quello di Wiesinger. Un cinema che ridiscende la china della storia del mezzo fino a quella dissolvenza incrociata fra fotografia e cinema, fra stasi e movimento – kinesis – che ha deciso a fine ‘800 la nascita di quello che noi oggi chiamiamo cinema.

Solo in questo modo è possibile misurare la vera politicità dell’operazione di Wiesinger: la riduzione di ogni problema storico a geografia. L’attuale crisi dell’Europa – per quanto paradossale possa sembrare – per Wiesinger è ricomponibile solo nella scomposizione topografica, nella disseminazione spaziale delle vedute che ridisegnano i confini europei senza cartina geografica. Parafrasando, ma con un senso che non potrebbe essere più diverso, Metternich potremmo dire che per Wiesinger l’Europa – come l’Italia per Metternich – si riduce a sola espressione geografica. Ma se per il cancelliere austriaco implicava una sostanziale depoliticizzazione dell’Italia ridotta a fondo per le potenze straniere, per Wiesinger implica esattamente l’opposto: la politicizzazione di ciò che non può essere conquistato da una potenza, lato sensu, colonialista; l’emersione di una differenza non ricomponibile, che resiste anche alle pretese omogeneizzanti dell’ordine del tempo.