Molti luoghi cancellati, in questo Festival. Come l’intero quartiere storico-residenziale degli “Orti” alle porte di Damasco, raso al suolo dal regime di Assad con il pretesto della pianificazione urbana per punire, di fatto, i ribelli. È “Al Basateen” il vincitore assoluto dell’edizione, del francese Antoine Chapon, premiato come miglior film sia dalla giuria principale che da quella degli studenti. Un lavoro durato 5 anni – nel frattempo, a fine 2024, il regime di Assad è caduto – che include un meticoloso progetto artistico di urbanistica 3D e testimonianze di prima mano di abitanti siriani che persero le proprie case nelle operazioni di demolizione. Case con annessi orti e frutteti, che erano sole, vita, bellezza, radici nazionali ed efficace rifugio-nascondiglio dai rastrellamenti del regime.
Schiene, canti, una voce talvolta rotta dal pianto, corpi, mani che toccano una fotografia dell’intera Basateen pre-demolizione stampata su un grande telo: tutto ciò che appartiene ai “rilocati” è tangibile, corporeo, familiare, persino i filmati nei loro cellulari hanno la grana pixellata e imperfetta di un digitale ancora radicato nella realtà. Al contrario del paesaggio che interrompe queste immagini, preceduto dal suo silenzio irreale: sembra la boulevard di “The Substance”, ultra nitido, inquietante; rivela subito la sua natura virtuale dall’angolazione non umana, colossale, che scende a perpendicolo attraverso la terra mostrandoci il marciapiede scomposto.
Nel contrasto tra corporeo e virtuale, Chapon sceglie di girare un film di fatto senza location. Tanto Al Basateen quanto Marota City, nel presente, non esistono (al loro posto, un deserto di cantieri); l’unica realtà è il limbo di stanze bianche in cui vediamo i protagonisti, ma mai i loro volti: spazi asettici, privi di riferimenti, arredati solo degli strumenti necessari per il progetto. Una sospensione residenziale ed esistenziale.
Dal punto di vista narrativo, il documentario coinvolge giocando con lo spaesamento e perfino con la suspense (solo alla fine vediamo il progetto completo degli artisti) mentre mette in discussione il concetto stesso di realtà: più volte nella visione si è colti di sorpresa, ci si ritrova a chiedersi per un attimo che cosa si stia guardando e che cosa sia reale. La sequenza pixellata del giardino è un filmato o un sogno-memoria multisensoriale? Il cielo azzurro dalle nuvole arancioni è una ripresa o una resa 3D?
Oltre all’apparato tecnico, del film colpisce l’intreccio sapiente tra il tema politico locale e quello della deriva tecnologica in senso anti-umano, problema globale dei nostri tempi recentissimi, di un mondo che abitua alla sostituzione della realtà con l’illusione. Marota sarà una smart city (palese, anche se non esplicito, il riferimento all’intelligenza artificiale sempre più invadente nelle nostre vite) con lusso e comodità ultra-moderne, globalizzata, impersonale, senza storia, alienata, felice di ignorare il resto del mondo. Una “Malibu siriana” – non può sfuggire un inquietante, involontario riferimento a vaneggiamenti contemporanei di una certa “Riviera of the Middle East”! – inutile all’umanità, utile al potere.