Al Festival del Nuovo Cinema non potevano mancare alcuni lavori completamente non narrativi. È il caso di “Insignificant Specs Of Dust In A Tapestry Of Stars“, del collettivo britannico Kyllachy, un excursus psichedelico che collega due estremi dell’umanità: missioni spaziali e miniere africane (cielo stellato e sottoterra, primo e quarto mondo) attraverso immagini d’archivio lavorate con alta saturazione, sovrapposizioni e altri effetti “allucinogeni”. In pochi secondi, il film condensa una moltitudine di frame da fonti disparate in successione frenetica: il nostro occhio non è in grado di distinguerli tutti, alcuni forse li assorbiamo per via subliminale, ma scorgiamo animali, satelliti, paesaggi, figure umane. Inizialmente, le immagini sono legate dal motivo di una forma circolare, ma più in là il film si libera dell’espediente del montaggio formale e – qui si fa interessante – gli shot si allungano per mostrarci alcuni parallelismi acuti e sorprendenti, come quello tra un operaio africano delle miniere che beve acqua preziosa in bustine di plastica e un astronauta (bianco) che compie un gesto molto simile mentre assume il suo space drink da un contenitore analogo. In sottofondo, per tutto il film, suoni di comunicazioni spaziali.
A livello visivo il film risulta “vintage”, complice la scelta di materiale d’archivio anni ’70 (l’età del grande entusiasmo per le missioni spaziali) e un certo grado di volontà di colpire i sensi con tutti gli effetti possibili esplorando le possibilità del mezzo cinematografico (ma, ahimè, “it’s all been done”, è rimasto ben poco di inedito. L’avanguardia, oggi, non è più tanto un affare di tecnica). Resta un prodotto confezionato in modo impeccabile, che si presta a più di un’interpretazione: mentre trasmette una sorta di vertigine concettuale (malinconica, poetica, quella del titolo) per la vastità del cosmo e dell’esperienza umana, offre lampi di denuncia del capitalismo post-coloniale, facendo riflettere sull’enormità delle disuguaglianze tra condizioni di vita nel mondo.
Il capitalismo è una questione centrale nel documentario “Evidence” di Lee Anne Schmitt, in cui, ancora una volta, una storia familiare si fa punto di partenza per il racconto di una tragedia nazionale: quella del sistema delle corporation che si auto-conserva, pervadendo la realtà americana a tutti i livelli – ambiente, università, mass media, società.
Un’inchiesta rigorosa, accurata e accorata, dove il voiceover della regista, ora scientifico ora personale, scorre su immagini statiche, perlopiù di oggetti collezionati e accumulati (la forma del capitalismo). Come le bamboline da ogni parte del mondo (giocattoli di Schmitt bambina) ritratte in primi piani impietosi, quasi macro, che ne mostrano la manifattura approssimativa; ricordi d’infanzia ma anche simboli patetici di un benessere anni 70-80 fondato su inquinamento ambientale, propaganda, repressione. E poi, altre immagini impietose di cose abbandonate a se stesse, neglette, inclusi i luoghi dello scempio industriale raccontato: tutto è immobile, senza figure umane nè azione (con una significativa eccezione finale); anche il voiceover della regista scorre monotono tra fatti e delicati aneddoti personali, con un risultato volutamente stagnante, fisso, come il sistema che si autoconserva.
Ma il percorso tortuoso del capitale, scopre Schmitt, è circolare: il conservatorismo, sotto forma di attacco ai diritti delle donne e di un’idea-feticcio di famiglia utile solo alla propaganda e a perpetrare abusi, le ritorna indietro nel momento in cui lei stessa diventa madre. Tutto si tiene, tutto torna (indietro).
Di nuovo un cinema dell’invisibile, che mostra in alcuni punti i suoi limiti: mentre parla diffusamente delle pubblicazioni finanziate dalle grandi aziende, vediamo shot dei nudi libri in oggetto, aperti da mani anch’esse “nude”, non curate. Una scelta anti-cinematografica, su cui si può discutere, che colloca il documentario nel territorio della sperimentazione, differenziandolo da precedenti illustri simili nel contenuto (inevitabile pensare a Michael Moore) dalla forma più godibile in senso tradizionale.
Il brillante film poem “12 Asterisci” di Telemach Wiesinger (recensione qui) racconta anch’esso una storia – o la Storia, quella europea – attraverso la mostra dei simulacri e delle tracce materiali di cui ha tempestato il territorio. E piace sia ai Critici che alla Giuria Internazionale, vincendo ben due menzioni speciali.
Altra poesia in forma di film è “Unstable Rocks“, della polacca Ewelina Rosińska, un distillato di 5 anni di riprese estemporanee in zone rurali del Portogallo registrate durante escursioni. Rosińska, infatti, rivela di “collezionare immagini” abitualmente, come modalità esistenziale. Nel film, colore e bianco e nero si alternano liberamente, riprendendo per lo più animali e scorci paesaggistici, ma anche figure umane, interni, gli incontri non programmati del suo viaggio (vediamo un battesimo!). L’occhio della regista non esclude nulla, tra vedute super panoramiche e shot macro, anzi sembra voler accogliere tutte le forme dell’esistenza sul nostro pianeta. La stessa scelta della pellicola, spiega Rosińska, fu dettata dai soggetti: bianco e nero per esaltare la forma e colore per le riprese di vibrante vita animale. Le “pietre instabili” del titolo – da un’insegna artigianale trovata anch’essa casualmente – simboleggiano la precarietà di tutto ciò che esiste, costantemente in movimento, ricordandoci l’insignificanza della vita umana in un quadro così vasto. L’attenzione per i soggetti animali, insetti in particolare, ha un retrogusto amaro: “Pedras Instáveis” è un film “su come la presenza umana sia ormai ovunque; qualunque animale incontrassimo stava già facendo i conti con l’interferenza dell’uomo“, aggiunge la regista nel post-proiezione. E rivela di ambire a “creare con l’editing un ritmo interno dato dalle sole immagini. Quando è raggiunto, quando il film si tiene da solo, allora aggiungo il suono per assecondarne il flow: può essere un crescendo, una traccia calma o altro“.
Ed è la volta del metacinema puro, con due opere di rimontaggio di pellicole vintage storiche.
Noé Grenier torna al festival con “L’Attaque A La Diligence“, un lavoro che chiama in causa pop culture, memoria e tecniche sperimentali di propria invenzione. Partendo da una vecchia pellicola 8 mm di “Ombre Rosse” per uso domestico – dall’etichetta “Western” (e nient’altro!) apposta da qualcuno molte decadi fa – Grenier ne filmò la proiezione su uno schermo LCD da lui smontato e rimontato. Vediamo l’iconica sequenza dell’attacco alla diligenza moltiplicarsi, deformarsi, proliferare come un organismo vivente; e, ancora, essere percorsa da cerchi di luce erranti (ottenuti con una torcia tascabile, rivela il regista), fagocitata da “buchi neri” come bruciature sulla sua superficie. Qualcuno ci fischietta sopra. Grenier gioca con la violenza iconica, archetipica dell’assalto facendola subire alla pellicola stessa, attraverso un lavoro materico che è anche scultura e performance, di cui il film non è altro che una registrazione live in atelier, con tutti i suoi suoni ambientali (l’uomo che fischietta è proprio Grenier). Il regista amplifica e celebra il valore della pellicola di John Ford come oggetto pop dotato di vita propria, nonché madeleine di memorie private: il ricordo del nonno che guardava western, “il cinema degli adulti”, su una piccola TV.
“Desire” di Giuseppe Boccassini, vincitore di una menzione speciale della Giuria Internazionale, è un viaggio di disvelamento e riflessione attraverso trent’anni di cinema melodrammatico classico – il cinema “da donne” – dal 1932 al 1958. Vediamo, accostati e ripetuti, centinaia di frammenti di sequenze che ripetono una serie di gesti sorprendentemente analoghi: una diva che ha un mancamento; un dottore che esamina l’iride di una donna attraverso una lente; un treno che arriva; qualcuno che aziona una manovella; una protagonista che dà in escandescenze dopo chissà quale torto subito. C’è chi ci vede una riflessione sul patriarcato, tanto nell’elemento di macchine intrusive, come i telescopi, qui usati per violare l’intimità femminile, quanto nelle varie espressioni di fragilità psichica delle varie protagoniste, logorate da una condizione eternamente subalterna.
In ogni caso, il film parla almeno in parte di noi; del fatto che esistono, nel nostro immaginario, topos e immagini che abbiamo assorbito e continuiamo ad assorbire a livello subliminale, ininterrottamente, per il solo fatto di esistere nell’era dell’immagine in movimento. Nell’opera non si può non notare un occhio ironico decisamente influenzato dalle forme dell’umorismo internettiano contemporaneo – il meme, per il carattere decontestualizzato delle scene; lo YouTube poop nei rewind-&-replay “all’infinito” e nel surrealismo degli accostamenti – ma c’è anche un po’ di “Blob” di Enrico Ghezzi nel proposito sociologico dell’operazione e nell’acume di molte delle associazioni, frutto di un corposo lavoro di ricerca e visionamento di decine di titoli internazionali.
C’è spazio anche per due esempi di cinema narrativo da sala.
“Sob A Chama Da Candeia“, l’ottavo del portoghese André Gil Mata, incanta da subito con un apparato visivo sfacciatamente “bello”, con composizioni equilibrate, geometriche ma morbide, e una palette particolarissima: verde menta, rosa antico, colori pastello da casa di bambole. Il regista sottolinea il significato topico di alcune scene – tutte ambientate nelle stanze della grande villa in cui hanno sempre vissuto le due anziane protagoniste Alzira e Beatriz, signora e serva – esasperando proprio quest’equilibrio compositivo fino a renderlo soffocante. Mentre apprendiamo la storia di Alzira giovane tra continui salti temporali, nella sequenza del suo fidanzamento – preludio a una vita senza amore, ripetitiva, a un’unione di solitudine – l’armonia degli spazi diventa opprimente, nel salottino simmetrico in cui lui chiede la mano di lei alla madre (impossibile non pensare a Wes Anderson). E, quando vediamo per la prima volta Alzira bambina mentre gioca con un ratto domestico, la composizione sconfina nel tableaux vivent, o in un’illustrazione da libro di fiabe, come un quadro dalla cui cornice non si può scappare.
Il ritmo del film è quello dei tempi umani, con long take flemmatici che ci restituiscono un senso stagnante di vita ripetitiva. Non c’è musica extra-diegetica; nella grande villa regna il silenzio, reale ed esistenziale (da giovani, né l’una né l’altra protagonista hanno voce in capitolo sul proprio futuro; ai giorni nostri, ormai anziane, è come se fossero fiaccate da una vita di non-detti), interrotto bruscamente da alcuni momenti assordanti di furia violenta, su cui la cinepresa indugia senza fretta, senza risparmiarci nulla, mantenendo i tempi dell’azione reale. Quando Beatriz bambina si accanisce su una gabbia di uccellini, un’inquadratura eloquente ci mostra lei “dietro le sbarre”: una prigione, quella del suo destino di immobilità sociale (e geografica). Ma ogni sfogo, nella grande villa con giardino, cade nel vuoto.
La maestria di Gil Mata sta nel ricorso quasi nullo alle parole, come nel lungo e barocco finto piano-sequenza che gira in tondo ad altezza tavolo da pranzo, sfruttando i “neri” delle sedie per mostrarci gli anni che passano ricalcando la medesima routine. Tutto ci trasmette la sensazione di una violenza sistematica, silenziosa e costante; di una solitudine strutturale fatta di sentimenti repressi e accumulati per una vita.
Concludiamo la panoramica con l’apprezzatissimo “Duas Vezes João Liberada”, della portoghese Paula Tomás Marques, vincitore di ben due menzioni speciali, della Giuria Giovani e di quella dei Critici (e unico film in concorso a ricevere due applausi in sala!).
A differenza degli altri titoli, qui siamo in territorio non soltanto narrativo, ma apertamente pop. Il film – sulla realizzazione di un biopic che prende una piega soprannaturale, su una donna trans (ante litteram) condannata a morte per stregoneria nel Medioevo – è avvincente in senso tradizionale, “all’americana”, con elementi di thriller paranormale, incentrato su un mistero da risolvere e sostenuto da una protagonista che, piaccia o non piaccia, risulta memorabile anche grazie alla caratterizzazione con accenti di final girl¹. Marques, certamente influenzata dai generi appena menzionati, è un’amante del colpo di scena “televisivo”, di cui troviamo diversi esempi: l’inizio che inganna, con la rottura del coccio a fare da transizione tra film-nel-film e realtà; la comparsa di certe interferenze dimensionali e almeno un altro plot twist che qui non sveleremo. Tutto è confezionato perfettamente, con alcune trovate di postproduzione stravagante, innovative ma sempre riconoscibili come linguaggio di genere: il sogno racchiuso da una cornice di circular motion blur; le paralisi rese con una sovrapposizione dello shot raddoppiato, come in una stampa mal riuscita; le già citate interferenze dimensionali mediante lampi di sovraesposizione totale e suono “fritto”; e, ancora, cambi di filtro a differenziare le scene del film-nel-film da quelle nella realtà.
Il film eccelle nella rappresentazione non verbale, 100% cinematografica, del motivo conduttore – la sovrapposizione ontologica tra la João attrice e la João medievale – attraverso un crescendo di indizi. La violenza implicita dei take fatti ripetere troppe volte somiglia in modo sempre più sospettoso, concettualmente, a quella di persecuzioni medievali che non vediamo; dopo le riprese di una scena di lotta, uno shot ci mostra, per un momento, l’attrice con un livido; e poi, strani sogni e altri momenti mistici nella sua vita quotidiana. Apprendiamo che, nello studiare e interpretare il personaggio, qualcosa di João1 le rimane appiccicato, senza che si parli di accavallamento identitario (un altro topos hollywoodiano, si pensi anche solo al recentissimo “May December” di Todd Haynes). Purtroppo, però, la raffinatezza narrativa si rompe sul finale, che esplicita a parole ciò che era stato così ben suggerito, rendendo l’opera “meno cinema”. E lo fa, forse, in modo un po’ furbetto, ricorrendo a un’ironia basata sull’accumulo di slang contemporanei (captatio benevolentiae diretta agli spettatori della generazione zeta?).
Incredibilmente, però, il film si risolleva (a proposito di plot twist) nei titoli di coda, dove compaiono alcune finte incisioni medievali con la storia tutta contemporanea della protagonista, dispositivi elettronici inclusi. Un dettaglio di contorno, ma che sottolinea la coerenza interna del progetto di Marques, concepito come oggetto pop completo, memorabile, già iconico.
NOTE
¹ Eroina di film horror che si trova a combattere per la propria vita, tipicamente contro un nemico soprannaturale.