MOSTRA INTERNAZIONALE DEL NUOVO CINEMA DI PESARO 2025 – TUTTI I FILM IN CONCORSO – PARTE 1/2

Autore:

Condividi su:

Riflessioni post-coloniali, famiglia, casa (scomparsa) e meta-cinema. Questi i temi dominanti – spesso intrecciati tra loro – dei film in concorso alla 61esima edizione del Festival del Nuovo Cinema di Pesaro, nella quale trionfa il documentario Al Basateen del francese Antoine Chapon (recensione qui). In comune alla maggioranza dei titoli, l’assenza dell’oggetto raccontato, con i problemi – tecnici e ontologici dell’oggetto cinematografico – che questa solleva.

È il caso dell’ecuadoriano “Como Suturar La Tierra”, incentrato sulla proiezione di fotografie di famiglia del regista Wil Paucar Calle su siepi, pareti, panni stesi e altre superfici di luoghi anonimi. Immagini incorporee come sogni, non più tangibili, sono tutto ciò che rimane della casa dell’autore e dei suoi avi – casa cone radici, storia, base esistenziale – spazzata via dalla furia distruttiva della guerra tra Ecuador e Perù. Su questi ricordi ectoplasmatici, un voiceover accorato e scorato, che diventa poi parole scritte, si rivolge direttamente a qualcuno della propria famiglia. Privato delle sue radici, il protagonista teme di non riuscire a costruirsi un proprio futuro e confonde “memoria e sogno“¹: condizione resa attraverso una seconda tecnica sperimentale, per cui le immagini nelle fotografie analogiche, pur ferme, sembrano correre a 200 all’ora come fossero in un prassinoscopio.
 
“Cartas Do Absurdo” di Gabraz Sanna, sul genocidio dei nativi brasiliani in 5 secoli di colonialismo, pone un problema leggermente diverso: la pretesa di raccontare con l’arte del film qualcosa che non soltanto è stato cancellato dalla storia, ma è addirittura in contrasto ontologico con il mezzo cinematografico stesso. Una cultura lontana anni luce dal positivismo bianco, dalla sua arroganza illuminista che “filma ogni cosa“¹, spazza via per ricostruire tutto a sua misura. Una rappresentazione visiva sarebbe un’ulteriore colonizzazione, una riduzione al mezzo-feticcio del conquistatore: l’immagine. Ecco che Paucar Calle si affida alle parole ironiche, caustiche e impietose, di un voiceover che racconta i secoli dal punto di vista dei vinti con il linguaggio inafferrabile del mito, accostato a lunghi shot fissi di immagini riflesse, non chiare, tremolanti. Colpisce, poi, l’interminabile soggettiva dalla prua di una barca che naviga verso l’odierna costa (squallidamente meccanizzata) del paese; in sottofondo, solo suoni e urla tribali, di riti o vita che non possiamo costringere dentro un sembiante. Intenzionalmente disturbante, l’orizzonte sconfinato (ripreso con lente cortissima) ci appare vuoto di immagini e di logos, come un non-sguardo su una dimensione mistica, pre-bianca ovvero pre-cinematografica, anti-documentaristica.
Ma fino a che punto possiamo sopportare (fisiologicamente) un film non antropocentrico? Titoli come questo ci ricordano una necessità: alcuni oggetti cinematografici non esistono tanto per allietare l’occhio, quanto per scomodare lo sguardo, porre una questione.
 
Colpisce la Giuria Giovani il sofisticato “Lo Que Creemos Es Lo Que Cuenta En Nuestra Vida” della franco-spagnola Assia Piqueras, vincitore di una delle due menzioni speciali da parte degli studenti. La regista, bis-nipote di un professore francese emigrato in Perù, tenta di ricostruirne la vita eclettica e il sogno tuttora impossibile di una convivenza tra discendenti dei nativi colonizzati e discendenti dei conquistadores spagnoli. Partendo da aneddoti di seconda mano raccontati da alcuni discendenti del bisnonno, il discorso si allarga naturalmente a una riflessione post-coloniale che include un’intervista anche all'”altra parte”, nel tentativo di ottenere un quadro completo, non soltanto bilaterale ma complesso e contraddittorio proprio all’interno di ciascuna delle due parti. Orrore e reticenza verso colpe sanguinose sono intrecciate a ricordi familiari preziosi, così come coesistono, dall’altro lato, disprezzo per il simbolo supremo del colonialismo – la croce – e fede cattolica. Come ad aggirare l’insufficienza di uno sguardo solo, lo schermo si espande, si fa triplo, prende la forma del “trittico dell’arte cattolica: un’illusione di coerenza tutta occidentale” (parole della regista). Il film, infatti nasce per la proiezione su tre schermi – qui Piqueras, cresciuta in Francia, non può non aver pensato a Napoleon di Abel Gance – ed è girato con grande attenzione alla valenza politica dell’immagine. Lo vediamo nell’uso della distanza e della ripresa mai frontale dei soggetti intervistati, “per non intromettersi troppo” nel dolore del racconto di ricordi difficilissimi e per non rischiare di avere “uno sguardo troppo ravvicinato che faccia perdere la big picture“. Quanto al suono, “tutto ciò che è calore e vita è affidato alle voci, alle parole“, spiega Piqueras, mentre le immagini restano fredde, con paesaggi vuoti e persone distanti dall’obiettivo.
 
Underground di Kaori Oda, alla sua seconda partecipazione al Festival, ritrae un tentativo per definizione impossibile: quello della trasmissione di un’esperienza umana – l’invasione americana del ’45 dal punto di vista degli okinawani, costretti a rifugiarsi per giorni nelle grotte naturali dell’isola – ad altri che non l’abbiano vissuta, con conseguente riflessione sui limiti del mezzo cinematografico. Ma fino a che punto è un fallimento?
Mani che si protendono, precedute dalla loro ombra, per toccare superfici naturali che hanno visto un’altra Storia; proiezioni di scorci soleggiati su superfici sotterranee; tentativi (puerili) di contatto metadimensionale tra umano e vegetale: così Ōda rappresenta il concetto stesso di messa in comunicazione di due mondi, prima ancora di parlarci dell’evento storico in oggetto. Seguiamo la protagonista nei luoghi sotterranei dove avvenne l’odissea dei rifugiati, mentre accompagna un testimone indiretto che ci racconta la storia dal punto di vista di una delle vittime ora defunta. Durante l’esposizione, l’uomo si rivolge direttamente a noi spettatori, annunciandoci che sta per spegnere le luci per farci rivivere, o meglio “per ricreare l’esperienza del buio sotterraneo“¹. Troppo ottimista? La risposta è, almeno in parte, in una differenza culturale. Se il nostro occhio occidentale tende a concentrarsi sulla riuscita inevitabilmente parziale, mutilata, della ricostruzione-trasmissione dell’esperienza – e in modo analogo ci appare risibile la scena della comunicazione con l’albero tramite hiragana² – dal punto di vista giapponese conta soprattutto la performance del tentativo in sè, l’atto rituale di raccontare. Qualcosa che i vivi fanno per loro stessi, per praticare il rispetto, per mantenere un’armonia ontologica tra presente e memoria. Tutto coesiste. Ecco, forse, perché Ōda ci mostra la protagonista tanto nell’atto di ricordare-documentare quanto nella sua ordinaria quotidianità domestica; ecco perché la sovrapposizione è il leitmotiv estetico dell’opera: l’ombra della mano, le proiezioni underground; ma anche il rombo degli aerei americani sulle immagini della spiaggia oggi tranquilla dell’isola. La memoria è, per definizione, inseparabile dal presente.
 
Famiglia, luoghi scomparsi e conservazione della memoria ritornano in “Buseok” di Park Kyujae, per la seconda volta al Festival, stavolta con un’opera completamente analogica. Un esperimento esteticamente ricercato, un lavoro materico creato con diverse pellicole dalle grane particolari, a volte graffiate, che amplificano l’effetto mistico e nostalgico del film analogico. Il quale, di per sé, “fa sembrare le immagini lontane nel passato, anche quando sono contemporanee“, commenta lo stesso Park, che rivela di aver sviluppato le bobine personalmente, da autodidatta, perché “a partire da Avatar di James Cameron, in Corea gli studi che sviluppano pellicole sono pressoché scomparsi“. I graffi che vediamo in alcuni shot, infatti, sono un prodotto accidentale del procedimento, che il regista ha deciso di tenere.
L’idea per il film – un viaggiatore che tenta di ricostruire la storia della propria famiglia – venne a Park da una scoperta: quella della scomparsa di uno specchio d’acqua che si trovava dietro la casa della propria nonna, ancora visibile nel vecchio dipinto di una zia, ma non più presente nella realtà. Nelle riprese al buio si nota un interesse particolare, metasensoriale per l’uso della luce, che si fa via via più accecante, fino a diventare flash che si imprime nella retina dello spettatore e rimane lì per qualche secondo: “[in quei momenti] volevo che gli spettatori vedessero non con gli occhi, ma con la mente“.
 
 
 
NOTE
 
¹ Citazione testuale dal film nella sua edizione italiana
 
² Alfabeto fonetico giapponese

Articoli collegati