RICORDO DI PIERO BARGELLINI. INTERVISTA A ORIANA B.

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Il fatto che il cinema di un artista come Piero Bargellini sia ancora poco ricordato non deve stupirci, né tantomeno mettere in discussione l’effettiva qualità del suo lavoro. Il successo, soprattutto nel nostro paese, ha premiato solo in rari casi il talento, la poesia, l’avanguardia. Bargellini in fondo chi è stato? Nient’altro che un cineamatore, un artigiano, uno con pochi soldi e ancor meno voglia di integrarsi nel mercato cinematografico. Ma sono proprio questi elementi – lo si sta iniziando a capire con molto ritardo – ad aver segnato la sua opera di una bellezza rara, quella propria degli oggetti più misteriosi, delle operazioni più marginali. Sarebbe infatti sbagliato, se non addirittura ingiusto, riferirsi ai suoi film come a dei capolavori (nonostante il film su David Riesman si intitoli proprio Capolavoro…), o comunque come a degli oggetti da riscoprire, in generale, per una loro qualche “grandezza” che deve essere inizialmente sfuggita agli occhi del pubblico (del “grande” pubblico, come spesso si dice). Se a quasi quarant’anni dalla scomparsa prematura di questo film-maker si vorrà tornare a scriverne le lodi, bisognerà farlo attraverso l’esaltazione di una “piccolezza” che lo stesso Bargellini ha sempre perseguito con coraggio. Il territorio in cui il film-maker toscano ha operato è infatti quello di una produzione non ufficiale, clandestina (quella dei “piccoli” formati, l’8 e il 16mm), segnata dal furore della militanza, dal passo dell’avanguardia, dal mito della tecnica. Il grande merito di questo cinema è stato proprio quello di allontanarsi da tutto ciò che è grande. Opere come quelle di Piero Bargellini ci insegnano che l’illusione della perfezione suggerita dai capolavori non potrà mai nulla contro il fascino di un’opera prima sghemba ma sincera, o di un mucchio di filmini amatoriali ma coraggiosi, o ancora di un film incompiuto ma (forse) rivoluzionario (l’Erinnerung di Bargellini è rimasto un progetto impossibile proprio perché troppo ambizioso, troppo grande). Qualcosa di simile si potrà dire della persona dietro i film, che non si è mai voluta appropriare dell’immagine dell’autore rigoroso e serio, del maestro, o anche solo del regista. Piero Bargellini è stato un tecnico, nient’altro. Ma come lui stesso ha scritto: “Il cinema è dei tecnici… solo dei tecnici.” Oggi la lezione di Bargellini è stata raccolta da diversi critici, film-maker o semplici cinefili che sono tornati a guardare all’underground italiano come all’ultimo gesto audace del nostro cinema, l’ultimo bagliore nel buio. E non sono pochi gli appassionati che hanno iniziato a sviluppare un vero e proprio culto nei confronti di figure come Piero Bargellini, che attraverso l’esplorazione della pura tecnica è stato in grado di rendere visibile un mondo tra le cose, di registrare colori e pulsazioni che normalmente sfuggono alla percezione. È grazie alla venerazione della tecnica (in particolare quella intorno allo sviluppo della pellicola) che Bargellini accede a una dimensione trascendente e spirituale dell’immagine. Ed è nel segno di questa contraddizione (ma lo è davvero?) che film come Morte all’orecchio di Van Gogh, Trasferimento di modulazione o Stricnina realizzano le infinite possibilità del cinema: il cinema può tutto, il cinema è tutto.

Quella che segue è dunque una testimonianza preziosa. Oriana era la moglie di Piero. Lo ha conosciuto meglio di chiunque altro ed è l’unica che può aiutarci a fare chiarezza su una figura di cui, oltre ai film, si è conservato ben poco (se non una manciata di scritti, alcuni inediti, su cui pure sarà bene tornare con più serietà). La ringrazio per la sua gentilezza, la sua disponibilità, e soprattutto per aver restituito il ritratto umano, vero, di un film-maker che ha sempre guardato al futuro e che oggi, da quel futuro che è il nostro presente, possiamo finalmente imparare a celebrare. È tardi, sì, ma questo è il destino degli artisti più grandi. O più piccoli, come Piero.

Piero Bargellini. Foto di Donatella Raimondi, 1970 (Archivio Massimo Bacigalupo, Home
Movies, Bologna)

Nota: Questa conversazione si è tenuta telefonicamente il 25 novembre 2022.

Come ha conosciuto Piero Bargellini?

Eravamo a casa di amici, una cena in cui ognuno portava qualcosa. Io ho avuto l’occasione di incontrarlo, ci siamo parlati, ci siamo piaciuti. Aveva capelli rossi rossi, fulvi. Lunghi. Durante le giornate normali portava le magliette, le polo, però quando andava alla Rai a firmare un contratto, quando andava a Roma, metteva sempre la giacca e il papillon, col fiocchetto. Bello il fiocchetto, mi è rimasto tanto impresso… Aveva 17 anni più di me. Io avevo 17 anni, lui ne aveva 33. E per sposarmi ho dovuto chiedere il consenso ai miei genitori, perché ero minorenne.

Quindi vi siete conosciuti ad Arezzo?

Arezzo, sì. Io non abitavo a Roma, ho sempre abitato ad Arezzo. Solo dopo sposata sono andata ad abitare a Roma per un anno.

Ma a casa di Adriano Aprà?

Sì, anche a casa di Adriano. Piero veniva ad Arezzo perché qui aveva il babbo e la mamma, era figlio unico. Andava e veniva tra Roma e Arezzo, di continuo. C’erano dei momenti che stava di più a Roma, sicché appena fidanzati non lo vedevo molto. Comunque sì, i primi tempi non avevamo tanti soldi e ci ha ospitato Adriano, a Trastevere. Non so se ce l’ha più quella casa…

No, adesso abita nel quartiere Laurentina.

Eh, io non è che conosco tanto Roma… Però, insomma, lì ci ospitava Marco Melani, ospitava tutti.

Dopo qualche anno dal matrimonio avete fatto un viaggio in Turchia, giusto?

Sì, perché Piero voleva fare un documentario, lì. Ci siamo stati tre mesi, addirittura. Sempre con l’aiuto dei soldini dei nostri genitori. Fece un sacco di riprese, belle, ma poi alla frontiera gli aprirono lo sportellino della cinepresa e la pellicola prese luce. Peccato, mannaggia…

So che tra le prime cose che ha filmato ci sono le corse automobilistiche.

Quando era giovane suo babbo, che era un meccanico, gli costruì una macchina e lui ci faceva le gare sul Mugello, su a Bologna. Gli piaceva correre, viaggiare a forti velocità. Aveva la Matra Bagheera, quella con tre posti davanti. Con un bottone si alzavano i fari. Addirittura casello Arezzo/casello Roma lo faceva in 50 minuti, mi raccontava. Gli piaceva fuggire. Eh…

Uno dei film più visti di Piero è Nelda, tutto incentrato su questa sua amica di Arezzo. Lei l’ha mai conosciuta?

No, il film l’ha fatto prima di conoscere me. Noi ci siamo sposati nel ’73. Che poi, dopo la morte di Piero, io tenevo le pellicole in cantina, dentro una cassapanca. Quelle bobine grosse mi davano noia in casa. Però così presero umidità e si fece la muffa. Quando venne Adriano erano tutte sciupate. Perché quasi tutte avevano il sonoro, eh.

Quindi ci sono dei film e dei materiali che sono andati perduti per sempre?

Sì, Adriano i film li ha tagliati. Erano più lunghi. Addirittura, su Erinnerung, Piero mi diceva: “Questo sarà un film che durerà otto ore.” Madonna!

Quello però perché non l’aveva terminato, giusto?

Sì, aveva iniziato a farlo ma non l’ha mai finito. Però, insomma, le pellicole si erano fatte tutte brutte, rugginose. Le avevo abbandonate lì, non gli davo importanza. Poi mi chiamò Adriano: “Ma come? Ce li hai ancora i filmati?! Allora vengo a prenderli subito, vediamo se si possono salvare.” Mah!

Invece le cineprese e il proiettore ho deciso di tenerli. Li tengo in garage, ma ho controllato: l’umidità non c’è! Come sono belli… una meraviglia. Il proiettore è enorme. Ha delle bobine grandissime. L’altro giorno per tirarlo giù dallo scaffale mi sono fatta aiutare dal mio compagno. Fa 8, super8, 16 e 35mm, ed è ancora funzionante.

Ma il proiettore da dove viene?

Da Piero Bargellini. Se lo comprò lui. Quando proiettava al Filmstudio se lo portava dietro. Mi aveva insegnato anche a metterci la pellicola.

Vorrei smontare alcuni falsi miti intorno alla figura di Bargellini. Talvolta si dice che lui fosse poco colto, nonché una personalità sfuggente, riservata. Era davvero così?

No, no, per niente. Aveva un sacco di amici. E non era ignorante. Aveva studiato alle Capezzine, una scuola che qui è rinomata. Era agronomo.

Ricorda magari qualche libro che gli ha visto leggere?

Mah… Gli piacevano gli indiani, Siddhartha, i libri sullo yoga… Mi spiegò anche qualcosa, Kundalini e queste cose qua, ma adesso non mi ricordo. Credeva più alle religioni indiane che a quelle italiane.

Mi sembra infatti che nei suoi film ci sia una forte spiritualità. Penso a Due silenzi e un’armonica, che è una sorta di film di meditazione per Piero.

Ah quello con la candela, sì. Sai, lui mi diceva sempre che nella sua vita precedente era un condor!

Ma il cinema rappresentava una presenza invadente nella vostra vita di coppia?

Dici se mi dava noia che facesse il cinema? No, macché! Ero sempre io la protagonista. “Stai ferma lì! Misuro la luce…” L’aiutavo volentieri. Una volta mi diede un chiodo e mi fece incidere la pellicola. Feci un elefantino che muoveva la proboscide. Era bellino, ma ci misi un pomeriggio per farlo! Io comunque avevo fatto l’istituto d’arte. Disegnai anche delle farfalle, l’aiutai con dei piatti di carta che sembravano ufo. Voleva fare un sacco di trucchi. Lasciava la macchina a fotografare un fiore e la mattina si ritrovava la ripresa di un fiore che si schiude. Sai, lui aveva sempre dietro la macchina fotografica o la cinepresa. E diceva: “Vedi, Oriana, io qui in fronte ho il terzo occhio. Non mi sfugge niente.”

L’elefantino inciso da Oriana in Erinnerung an die Zukunft (Piero Bargellini, 1970)

Lei cosa pensava di quello che faceva, delle sue opere?

A me piaceva molto. Vedevo che aveva tanta passione. Anche quando proiettava al Filmstudio chiedevano sempre di lui. “Pierfrancesco Bargellini aiutaci a fare questo, aiutaci a fare quest’altro…” Lo chiamavano genio. Era un genio.

Infatti lavorò con Tonino De Bernardi, Massimo Bacigalupo, Paolo Brunatto…

Anche con Bertolucci! Lui fece una scena de La luna.

Ma si dice che il loro incontro non portò a molto.

Diciamo che ci provò, ma questo effetto della luna non gli riuscì. Però abbiamo abitato per un periodo da Bertolucci, a Velletri. Ci ospitò una settimana, dieci giorni. Io avevo la bambina piccola. La sera invitava un sacco di registi e stavano tutti in compagnia, le cene insieme… Era un ambiente molto amichevole. Da qualche parte ho anche la foto di me con la bambina e Bertolucci.

Un film di Piero che mi piace molto è Dove incominciano le gambe. Lì si vede anche lei, Rebecca, la macchina sportiva. Adriano Aprà ricorda che Piero aveva fatto una pubblicità e che il ricavato l’aveva sperperato tutto per comprarsi questa macchina.

Eh bello quel film! Comunque no, aveva fatto una pubblicità per gli zoccoli di legno del Dr. Scholl, con le mie gambe, per una rivista. Ma la macchina l’aveva potuta comprare perché suo padre gli aveva lasciato un fondo, che lui ha venduto per 12 milioni.

Dove incominciano le gambe (Piero Bargellini, 1974)

Prima mi parlava di qualche lavoro per la Rai, ma io non ne ho mai saputo nulla…

Si trattava di documentari sulle città: Lucca, Pisa… Ha fatto 90 documentari. A come agricoltura, perché lui era un agronomo. Una volta sono andata anch’io a Lucca: lui faceva la regia di uno di questi documentari e aveva chiuso tutte le strade. Propose anche alla Rai di fare un documentario sul gesto, sul gesticolare, però non gliel’hanno accettato e non l’ha mai fatto. C’era stato però Fractions of Temporary Periods. Mamma mia… Ha tenuto la macchina da presa puntata un mese, due mesi. Ogni tanto usciva sul terrazzo e faceva un minuto, due minuti di ripresa. Me lo ha raccontato, perché era prima che ci conoscessimo. Stavamo in quella casa e vedevo la ragazza di fronte. Ormai era diventata grande.

Fractions of temporary periods (Piero Bargellini, 1965-69)

Nell’intervista di «Gong», Piero vede in Fractions un film sulla pazzia, la sua pazzia.

Ma no. Era bello portare la cinepresa sulla terrazza per studiare i movimenti di questa bambina. Lei faceva tante cose, si pettinava e pettinava le bambole… Ti dicevo del documentario sul gesto: Fractions è uno studio di questo tipo. Un altro è Zukie, che ha fatto con un’altra signora, Giovanna. Con lei ha avuto un figlio. Una volta ci siamo anche incontrate, ma adesso è morta. Era molto bella.

Poi Stricnica, dove c’è il suo cane, che era vecchio e malato. Lui lo portò dal veterinario a fare la puntura. E nel film ci sono tutti flash del cane che soffre. Bello anche quello.

Stricnina (Piero Bargellini, 1969-1973)

Parliamo un po’ di alcune figure che ruotavano attorno a Piero. Tonino De Bernardi, ad esempio.

Tonino De Bernardi l’ho conosciuto a Torino, quando hanno fatto la retrospettiva su Piero Bargellini. Ma l’ho visto solo in quell’occasione. A Roma invece ho avuto più a che fare con Paolo Brunatto e Alberto Grifi. C’era Patrizia Vicinelli, una scrittrice brava che abitava a Bologna. Poi c’era Marco Melani, con cui abbiamo condiviso tanti momenti. Lui stava a San Giovanni Valdarno, a trenta chilometri da Arezzo. Ma non lo sapeva fare il cinema. Gliel’ha insegnato un po’ Piero, perché lui non sapeva fare niente. Melani era un bambinone, un bonaccione!

E Sirio Luginbühl? Ho letto un suo catalogo e lì, in un articolo, ricordava che nel presentare alcuni suoi film venne introdotto da Piero Bargellini.

Non lo conosco. Forse questo che dici tu è successo prima del ’73.

Luginbühl ha scritto anche un libro all’epoca, Cinema underground oggi, in cui ha persino riportato gli indirizzi di casa dei cineasti. Ho letto che Piero abitava a via del Ninfeo 14.

Sì è giusto, all’epoca abitavamo lì! Ma io non ce l’ho questo libro. Ne ho altri, del Filmstudio, di Torino…

C’è un ricordo di Piero che si porta particolarmente nel cuore? Una frase, un gesto…

Il ricordo più bello è mia figlia. E poi le sue cineprese, che ho tenuto per quarant’anni e sono impeccabili. Sono bellissime. Ma anche i nomignoli che mi dava, che mi fanno morire! Un’altra cosa che mi ricordo è che teneva tantissimo al proiettore. Non voleva che lo toccassi: “No, non me lo toccare che mi ci lasci una ditata!” Voleva portare le cineprese e il proiettore sempre da solo.

Il cinema di Piero è pieno di pulsioni di morte. Stricnina, come abbiamo detto, parla della morte di un cane. Il tema di Morte all’orecchio di Van Gogh è chiaro già dal titolo. Trasferimento di modulazione è stato concepito per autodistruggersi. Ma forse tutto questo è dettato da una voglia di vivere incendiaria.

Di voglia di vivere ne aveva tanta. Voglia di rinascere, addirittura. Poi sì, faceva questi film con i teschi, la morte. Ma lui diceva: “Dopo la morte c’è la vita.” Ecco.

Morte all’orecchio di Van Gogh (Piero Bargellini, 1968)

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I giovani sono entità incomprese. Non capite, complesse, labirintiche. Sono alieni provenienti da un universo altro, che piombati sulla Terra, si guardano intorno spaesati. Sono curiosi, eppure spaventati. Hanno voglia di vivere. Ma hanno paura.