MONDI LONTANI SHORT FILM FESTIVAL PARTE II: GEOGRAFIE DI DIVERSE FORME CINEMATOGRAFICHE  

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Seconda serata del Festival, altri quattro mondi da scoprire.

  1. Fatih the conqueror, di Onur Yagiz (FR – 15’) 

Siamo in macchina, in uno spazio e in un tempo giusti per raccontarsi. Ci sono due amici che, in occasione di una festa di matrimonio turco all’Espace Venise (Francia), parlano del loro futuro. È come se in quell’auto ci fossimo anche noi spettatori. Accovacciati, nascosti, ma anche imbrigliati e intricati come i pensieri dei due protagonisti; siamo parte di quella che vuole essere una confessione, una liberazione, una presa di coscienza. I fili intimi di un discorso fatto di istanti di memoria – sia vissuta che viva – si aggrovigliano e si sciolgono da soli, imbattendosi in temi come l’identità culturale, le tradizioni e tutto quello che ci definisce e (in parte) ci limita. Il regista Onur Yagiz, nato in Francia da genitori turchi, con il suo terzo film realizza una sincera presa di posizione, dettata sì da una delusione, ma non da una sconfitta. «Credo che il film dica qualcosa che avrei voluto sentirmi dire io quando ero un adolescente e lottavo con questioni di identità: rilassati e goditi la vita, l’identità etnica non è ciò che ti definisce», ha raccontato il regista nell’intervista presente nel catalogo del Festival. I limiti in cui ci imbattiamo si trasformano, allora, in possibilità e se si presenta un ostacolo occorrerà essere spinti dall’urgenza di oltrepassarlo e l’essere andati avanti sarà allora una conquista. Il confine tra le diverse identità – e geografie – si infrange e, presto o tardi, i fili saranno così intrecciati da non sapere dove inizia uno e finisce un altro.

  1. Nocturnal Burger, di Reema Maya (US – 28’) 

Reema Maya ci rende testimoni di una storia di violenza. Una ragazza di tredici anni e un uomo di trenta vengono portati in una stazione di polizia a Mumbai. Devono ricostruire i fatti avvenuti durante una notte. È stata la scrittrice Susan Sontag a porsi il problema di analizzare le responsabilità etiche dello spettatore che osserva a distanza, protetto dallo schermo, la sofferenza altrui. Nel suo saggio Davanti al dolore degli altri, critica duramente il sentimento della compassione, che (ci) spinge ad auto-assolverci e a de-responsabilizzarci. Non esistono (né sono mai esistiti) semplici e passivi spettatori. Anche gli oggetti – e gli hamburger – sono testimoni. Non esiste, ancora, la possibilità di dire che siamo all’oscuro di quanto avviene comunicato dai media. Quello che Reema Maya porta in scena è una storia – una delle storie – che siamo costretti e costrette a conoscere, discutere, interrogarci. In questo modo, forse, diventerà possibile essere finalmente concordi sul significato della parola «colpa». «The women are screaming, loud and clear which is amazing. But we just need to start talking more, I think», ha affermato – urlato – Reema Maya in un’intervista. Bisogna parlarne (ancora) di più, allora. «I think that is just because – weirdly, that has become the trend just overall, globally. Where suddenly people are trying to change what the term feminist stands for. And there are terms like femi-nazi, and weird things that are going on and I feel like the people who don’t sort of understand the positivity and power behind the word feminist or feminism, are just people who are ignorant about what it means. Because it means an equality of the genders, and how can anyone be embarrassed about caring about equality of genders», prosegue – ancora – l’intervista. La regista spiega, cioè, come si stia cercando di cambiare il significato del concetto di femminismo, depotenziando l’accezione di positività che lo connota e la sua grande forza. Significa uguaglianza di genere, e come si potrebbe non essere d’accordo nel prendersi cura dell’uguaglianza di genere? Quello di Nocturnal Burger è un mondo che conosciamo e su cui dovremmo intervenire tutti e tutte affinché cambi. Perché quello che è avvenuto una volta può ripetersi nella stessa forma o in altre diverse. E già si sta ripetendo.

  1. Beyond the sea, di Hippolyte Leibovici (BE – 25’) 

Il rapporto tra Lady Casca, una drag queen sessantenne, e suo figlio è il fulcro del corto di Hippolyte Leibovici. Un rapporto che – nonostante sembri essere stato spezzato – c’è, resiste. Rimanendo in bilico tra la commedia musicale e il dramma, il regista franco-belga destruttura gli stereotipi raccontando di una drag queen senza soffermarsi sulle drag queen. Ci sono un padre e un figlio, con le loro questioni irrisolte e i loro problemi. «Sarei stato felice di averti come amico, come principale, come zio, come nonno e persino (sebbene con qualche esitazione) come suocero. Solo come padre eri troppo forte per me», ha scritto Kafka in Lettera al padre, descrivendo la forza e la superiorità (?) del genitore, la cui ombra ha dominato pensieri, carattere e psicologia sin dall’infanzia. Alcuni frammenti vanno riposizionati, accettando il cambiamento e l’evoluzione. Kafka riporta a galla un ricordo: l’interno scuro di una cabina al mare, il momento in cui la gracilità del figlio trova un inquietante contraltare nel portamento aitante del padre. Leibovici compie, invece, uno sforzo diverso, dimostrando che abbiamo bisogno di relazioni imperfette, andando al di là della paura. E al di là del mare.

  1. Flow and Ebb, di Janis Westphal (DE-20’) 

Flusso e riflusso, incessantemente. Siamo ancora al mare, insieme ai pescatori Fred e Malte che si conoscono da sempre, sin da quando hanno iniziato a ricordare. Il Mare è l’elemento che si ripete, mantenersi a galla è l’obiettivo. Ma è davvero l’uomo ad avere potere sugli elementi della natura?  Ad avere, cioè, un potere che esercita con la sua sola presenza, con il suo modo di pensare? Seguendo questo ragionamento, allora, il mare all’apparenza, non basterebbe  sé stesso, ma sarebbe in relazione con chi lo contempla. O si tratta di un inganno, perché, in realtà, il mare basta a sé stesso in ogni momento del tempo, come bastava a sé stesso quando gli uomini ancora non esistevano? «Il titolo del mio film, Flow and Ebb, rappresenta anche la realtà della vita dei miei protagonisti. […] Le loro vite sono governate dal tempo, dalla natura e dalle maree, e sono caratterizzate dal ripetersi costante delle stesse cose. […] Fred e Malte trovano una via d’uscita dal loro dolore attraverso la nostalgia, che permette loro di riscoprire il loro bambino interiore», ha spiegato il regista Janis Westphal nell’intervista presente – ancora – sul catalogo di Mondi Lontani Short Film Festival. Riscoprirsi, sonnecchiare o sbracciarsi tra le onde del mare, espandersi, trasformarsi. Il tempo di Fred e Malte è durata, si rinnova ad ogni istante portando memoria del passato, un passato che s’infila – o s’incastra – nel presente. Al flusso continuo della durata si oppone una forza intima, uno slancio vitale, che ha per immagine un’onda che, una volta giunta sulla riva, si fa risacca e ostacola le altre onde in arrivo. Janis Westphal dimostra che Il lavoro di cura può essere una pratica di esistenza e un processo di umanizzazione. E di ri-umanizzazione.

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