1. Introduzione
La poésie est la perpétuelle insurrection de la conscience contre l’oubli que l’homme fait de lui- même dans sa marche hâtive. C’est bien de cet oubli que le poème nous sauve quand il nous rappelle à l’ordre du sensible1.
Seguendo la tesi di fondo di McLuhan, per cui «i media sono metafore2»: essi hanno la capacità di trasportare in maniera attiva, ossia di veicolare e di trasformare, il messaggio e «le realtà umane»3, che queste siano individuali o collettive. La mediologia pertanto si occupa di giungere a un testo4, a un’opera cinematografica, o a un’opera d’arte seguendo il metaforico percorso che l’ha portata a essere tale e, a noi, a venirne a conoscenza. È un percorso fluido e luminoso di analisi, in continuo divenire, e di riformulazione attraverso i medium di riferimento grazie ai quali è stata generata e a quelli che le consentono di continuare a rigenerarsi.
Ad esempio: Hiroshima Mon Amour (1959) è sì: un film prodotto da Francia e Giappone che ricevette l’Oscar nel 1961 ma, al contempo, è anche il frutto di una collaborazione produttiva, e del reciproco ascolto, tra la rivoluzionaria scrittrice e regista proveniente dall’Indocina francese, Marguerite Duras e il teorico del cinema, nonché altra tecnicamente preziosa nebulosa della Nouvelle Vague, Alain Resnais. Hiroshima Mon Amour5 è anche, però, un collage di immagini del passato e, al tempo stesso, il presente che ruota attorno all’ultima scena di un altro film. È un dialogo e una ripetizione, che si alternano nel loro presentarsi allo spettatore tramite un uso alternativo del flashback, quasi come di un gas primordiale che, nella rivelazione del dipinto di Resnais, è mobile, come la pellicola nella cinepresa, sulla, di Lei, memoria.
La (miglior) sceneggiatura (originale) di Duras, e il primo lungometraggio di Resnais hanno il coraggio di regarder, di strabuzzare gli occhi su qualcosa che non si vede, ma che si percepisce. Su tutto ciò che soltanto attraverso la scrittura può manifestarsi, in un momento di devastante presa di coscienza.
Da un flusso di parole e immagini, il rimosso, l’archetipo del fantôme riemerge: presentato dallo stato della donna, per D., ad essere condannata a una grandissima consapevolezza. Lei è una figura femminile anonima che cammina incessantemente nell’ignoto, nell’introspezione. Ma, al tempo stesso, solo Lei sembra potersi fare carico della comprensione del mondo, a solo un giorno di distanza dal suo ritorno in Francia.
L’esperienza cambia, in Lei, il proprio modo di guadare la vita. E noi la osserviamo, per la prima volta, ripercorrere tale vissuto attraverso la pietra miliare stilistica, contaminata dalle non meno importanti tendenze documentaristiche, di Resnais.
Di Hiroshima, del suo evento catastrofico e della sua rielaborazione, in chiave realistica e universale, quanto ancor più percepibile in una visione epifanicamente intima, via via che si prosegue nella visione, ne avvertiamo un’eco vicina e lontana. E a cui ci appropinquiamo planando dall’alto, come in sogno lucido, dal punto di vista di una donna, della sua protagonista. Di Lei, che conosciamo inizialmente attraverso la parola di D. e successivamente assistendo alle immagini filmiche di Resnais, iniziando da una polvere luminosa e inattesa, che ci parla ma nel mentre sa restare in ascolto.
Marguerite Duras, assieme a Resnais nel suo primo lungometraggio, presenta soggetto e sceneggiatura alla dodicesima edizione del Festival di Cannes, nel maggio del ’596, dando vita pubblica al frutto di una collaborazione destinata tutt’oggi a essere considerata come una delle opere più autorevoli della Nouvelle Vague.
Traspare già nell’esplosione di una struttura cronologica, data dalle immagini generate dalla parola e dal pensiero, quella volontà di rivoluzionare le strutture del romanzo tradizionale insita in D. Servendosi di un linguaggio che, nell’abolizione della frase, adempie a tale rivoluzione D. agisce in virtù della decostruzione di una trama vera e propria, in favore del sentire che evocano piuttosto – nell’animo del lettore, e poi dello spettatore – le immagini dapprima da Lei evocate.
La pellicola, in bianco e nero, è ambientata nell’agosto del 1957, a dodici anni di distanza dallo scoppio della Bomba A. Ma, diversamente da quell’estate, l’incipit incornicia il muto scambio di una coppia di amanti. Lei e Lui si abbracciano, in una camera d’albergo, dopo una notte d’amore. Seguono alcune dissolvenze incrociate che presentano, in alternanza, i reciproci volti dei due protagonisti, interrotti nel loro atto d’amore, ma non nel loro dialogo7. Il quale accompagnerà sonoramente ciò che segue, iniziando dalla prima carrellata di immagini sugli effetti dell’indicibile disastro.
La vera protagonista della pellicola è la Memoria, il suo fluire ininterrotto: «come te anch’io ho cercato di lottare con tutte le mie forze contro la smemoratezza», spiegherà più avanti Lei rivolgendosi a Lui, «e come te ho dimenticato».
2. Il frame-ambientale mediale
Hiroshima Mon Amour è stato letto e prodotto al crepuscolo degli anni Cinquanta, in un ambiente mediale ibrido che aveva appena iniziato ad assistere alla reciproca e produttiva contaminazione post-bellica tra Neorealismo e Nouvelle Vague.
Nel frattempo, a metà dello stesso decennio, nonostante l’attenzione rivolta alla sala cinematografica fosse ancora ritenuta considerevole e perciò alquanto rassicurante, il medium di massa a dominante visiva, che più di tutti avrebbe catalizzato l’attenzione degli spettatori da lì a poco, iniziava a porsi come decisivo spartiacque per quel che avrebbe riguardato le abitudini sociali delle famiglie, intrattenendole – attraverso lo schermo televisivo – in diretta dalla loro abitazione.
Il cinema d’altronde, ricordando le parole di McLuhan, è in grado di fondere l’organico con l’inorganico8 e di ricreare un mondo a sé stante. E in quanto forma non verbale di esperienza, non del tutto slegata dalla tecnologia della stampa, potrebbe definirsi – nel caso specifico del film di Resnais e della sceneggiatura di Duras – un prezioso modo, escogitato dai suoi realizzatori, per dar vita a una resistenza, sempre attuale, della letteratura, legata all’inconscio collettivo quanto al potere sensibile della parola, ma che non avrebbe – ugualmente – escluso in se stessa la necessità di presentarsi attraverso un drastico cambiamento nello stile quanto nei suoi significati. D’altronde, facendo un passo indietro e «tornando alla Galassia» e ai «precedenti più espliciti della teoria di McLuhan: l’alfabeto» già di per sé «è un elemento aggressivo e attivo che assorbe e trasforma le culture, come per primo mostrò H. Innis»9.
Entrando nel merito della fotografia del film, anch’essa realizzata da una collaborazione franco- giapponese, venutasi a creare tra i due direttori Takahashi Michio e Sacha Vierny, si può accennare, nel dettaglio, alla copertina originale scelta per la pellicola doppiamente premiata a Cannes. L’immagine, su sfondo rosso, ci presenta i due attori: Emmanuelle Riva e Eiji Okada come l’antropomorfo ritratto dell’incomunicabilità, e può dunque aiutarci a cogliere delle sfumature potenzialmente rilevanti per analizzare il paratesto dell’opera.
Le loro figure – stilizzate come se appartenessero a un ibrido dipinto, quasi a metà tra la tradizione hopperiana e ad alcuni tratti vagamenti caricaturali e fumettistici – emergono grazie a quello che più somiglia al non banale squarcio di una parete, di un vecchio manifesto, o ancor più di quello che potrebbe sembrare l’involucro di un romanzo.
Un rivestimento usurato dal quale sembra si stia liberando uno10 dei momenti più suggestivi, oltre che una delle più iconiche immagini, del film. Tale dettaglio, oltre a una novità latente, sembra dunque rimandare alla portante scissione su due piani spazio-temporali che caratterizza l’intera pellicola: il dolore personale, di Lei a Nevers, che emerge attraverso la pubblica angoscia che abita e pervade Hiroshima.
Nel suddetto frame la donna ha lo sguardo rivolto altrove. Come spesso appare nel film: Lei è desiderosa di allontanarsi, eppure indugia. Si nasconde in se stessa e da se stessa, e al contempo – nei frame successivi – si riscopre. Parlando di Hiroshima l’attrice lascia che la catastrofe universale si riveli, talvolta semplicemente attraverso le emozioni rimediate dal suo sguardo, nella dolorosa trasfigurazione di una perdita individuale. Ossia nell’orrore per la morte del suo grande amore clandestino, di ragazza, a Nevers. Il soldato tedesco è spirato tra le sue braccia, a causa della guerra, e lei lo rivive tornando indietro a quel tempo e al luogo esatto in cui si sarebbe dovuto tenere un loro incontro d’amore segreto. La notte in cui il suo amato muore, dopo una lunga attesa, si rivelerà inoltre la stessa notte in cui Nevers verrà liberata.
L’architetto, contrariamente, sembra essere assorto dalla presenza di Lei. E, pur ammettendo di conoscere le sofferenze di quei luoghi e il trauma dei suoi abitanti per vie secondarie – e dunque non più di quanto abbia fatto la sua amante fino a quel momento nei confronti di Hiroshima – appare sicuro nel suo atto di trattenerla. Lui è il solo11 – capiremo più avanti – in grado di ascoltarla. E ciò ci permetterà inoltre di comprendere anche – attraverso le sue urgenti domande a Lei rivolte – cosa si celi realmente sotto il velo universale del tutto di Lei visto a Hiroshima. In tal modo, almeno metaforicamente – se ci ponessimo ora in uno stato precedente alla prima visione del film – quel che raffigura la stessa copertina sembrerebbe quasi voler ribadire il concetto12 per cui la modernità non possa che procedere se non attraverso catastrofi. Lei, in questo caso – come Lui stesso le ricorderà13 e dopo poco anche Lei si ritroverà ad ammettere – senza la sua personale catastrofe14 non sarebbe quella che è.
I titoli di testa appaiono in dissolvenza su un’immagine statica in cui prevale il nero e che sembra raffigurare, in bianco, una crepa, o forse l’immagine catturata dall’alto di un satellite. Nel mentre, la musica extradiegetica che accompagna i titoli sembra volontariamente produrre un senso di straniamento e coinvolgimento, destinato a concludersi con una dissolvenza in nero. Il titolo del film, invece, sembra alludere alla condensazione, allo spostamento del trauma rimosso della donna francese, per aver perduto il suo amato a Nevers, e che, ancor prima di ripresentarsi attraverso l’architetto francese, si sofferma sulla devastazione che mostra la desolata città di Hiroshima nella sua impossibilità di rivalsa. Oppure potrebbe riferirsi allo stesso impossibile amore-cornice abitato dai due protagonisti, e alle cui fluide pareti vengono metaforicamente proiettati i ricordi di un tempo lontano, quanto sempre più prossimo a un presente, ma che iniziamo a percepire tanto intenso quanto sfuggente.
L’instabilità vige quindi anche oltre la questione della temporalità, approdando con trasporto nella percezione del Sé. Il tempo della pellicola, che rassomiglia sempre più a un tempo interiore, non segue un ordine cronologico, e delinea l’aspetto di fondamentale rivoluzione insito nella struttura dell’opera – nonché, inevitabilmente – il rimando all’incerto periodo storico in cui essa si inserisce. Pensiero e cinema, in qualche modo, non potrebbero mai essere stati tanto vicini.
Hiroshima Mon Amour si affaccia lucidamente alla modernità dopo l’Apocalisse. Il film sembra pertanto rappresentare il perfetto esempio di una necessaria trasformazione in grado di dare una nuova forma, più soggettiva e legata al pensiero, ai frammenti di natura universale, e perciò banalmente più condivisibili, lasciati in eredità dalla Seconda Guerra Mondiale. Ciò, inoltre, avviene non separatamente dalle intenzioni dei suoi realizzatori. Ossia di rimanere focalizzati nella ricerca di una nuova e sempre più estesa concezione di libertà.
L’innovazione rappresentata nel film di Resnais si attraversa, innanzitutto, a partire dalla decostruzione della narrazione, in letteratura, alla necessità, perseguita da D., di cimentarsi in un linguaggio innovativo, sino all’affiancarsi ad essa di una visibile ricomposizione di immagini interiori e poetiche, figlie del concetto avanguardistico della caméra-stylo e del potere dell’immaginazione, consegnato finalmente nelle mani di uno spettatore attivo.
Lo stesso Nouveau Roman, ad esempio, – a partire da uno dei suoi più ridenti germogli, innaffiato di anticlassicismo, nonché simbolo della sua storica evoluzione dal naturalismo al misticismo, passando per il decadentismo e allontanandosi infine, con decisione dalla razionalità del positivismo scientifico – vide la sua prima esplorazione in territori dapprima sconosciuti con lo scrittore parigino Joris-Karl Huysmans. Il quale, con il suo À rebours (1884), e la sua prefazione pubblicata vent’anni più avanti, iniziò a dare molta più libertà al pensiero, concedendogli la possibilità di andare, quanto il più letteralmente possibile: controcorrente.
3. Le funzioni socio-simboliche
Resnais, pur avendo da poco sperimentato ciò che di prezioso15 possa essere stata in grado di rivelare un’accurata tradizione documentaristica, nel suo primo lungometraggio non avrebbe avuto l’intenzione di raccontare Hiroshima seguendo il filo rosso delle immagini di repertorio, bensì quello del pensiero che si attarda su di esse finendo con lo spaziare oltre, ossia in chiave introspettiva, grazie anche alla scrittura di Duras.
Di riflesso alla funzione terapeutica della scrittura di D., in grado di affermarsi nella lotta con se stessa e dalla presenza di onnipresenti fantasmi, vige similmente quanto riportato nel manifesto di Alain Robbe-Grillet nel 1963. Con Pour Un Nouveau Roman, a sei anni di distanza dal suo Sur Quelques notions périmées, Grillet riflette e promuove l’idea, espressa anche dalla D., di scavare nell’interiorità16.
Dal momento dunque che tornare al passato è impossibile, dato il cumolo di macerie fisiche e simboliche che affollano Hiroshima – seguendo almeno quel che insegna la traccia benjaminiana – e dato che è il tempo interiore a divenire una presa di coscienza – in riferimento, stavolta, al tempo soggettivo di Bergson – come funzione sociale dell’opera si potrebbe osservare, in questo caso specifico, come D. sembri voler riportare alla luce ciò che anche Charles Baudelaire aveva dapprima compreso. Ovvero la necessità di seguire il vero progresso. Il vero progresso, ossia quello interiore. Per raggiungere un tale obiettivo D. si serve di un intimo dialogo, che potrebbe quasi risolversi in un monologo interiore e senza interruzioni, nel caso in cui si volesse rendere la figura di Lui simile a quella di un fantasma evanescente, in grado di far riemergere il passato. Monologo che può avvenire nell’au-dedans, quindi, o da nessuna altra parte.
Il lettore, nel mentre, è al vertice della piramide. Dopo la spinta del Nouveau Roman dovuta alla necessità di un cambiamento radicale. Un po’ come con Gide, con il suo monologo interiore, o con altre penne di tale corrente letteraria, pronte ad indugiare coraggiosamente sulla moltiplicazione dei punti di vista o di immergersi quanto il più possibile in un’esperienza del romanzo dentro il romanzo.
A dodici anni di distanza dal più grande esempio di distruzione di massa della storia, e in concomitanza a uno sfondo di Fredda tensione politica, il clima specchio non distensivo della società sollevato dai mass-media appare in strettissimo contatto con il ruolo di Hiroshima nell’Agenda setting collettiva. Tanto più se quest’ultimo sembrerebbe imporsi: rispondendo a un quesito necessario. Una domanda che appare tanto fondamentale quanto dimostra di esserlo il bisogno di attardarsi a ripercorrere, più o meno nei dettagli, gli orrori post-catastrofe nucleare, in modo tale che questi possano non doversi ripetere ancora.
Tale quesito è legato – stavolta, però – molto più a quella che appare come una visione intima della devastazione. E quindi non più solamente di un trauma universale, ma di un altro. Rappresentato nella pellicola di R. come di pari grandezza. In chiave autoriflessiva ci si attarda proprio nell’interrogarsi sulla dimenticanza. Perciò, al di là del mero scopo di voler documentare la realtà di una catastrofe, suggerendone un’adeguata riflessione a riguardo: la letteratura e il cinema decidono, in questo frangente, di andare oltre.
Lei stessa – preda della sua intima universalità – ricorderà come, nel momento in cui mise piede per la prima volta a Parigi, al termine del suo viaggio in bicicletta, iniziato nel cuore della notte e partendo dalla sua casa a Nevers, di aver subito appreso quanto fosse accaduto oltreoceano. Lei ricorderà che il nome di Hiroshima era su tutti i giornali.
4. Le strutture semio-mediali
Al presente, ad Hiroshima, si alternano immagini di repertorio e di perlustrazione della città, entrambe sugli effetti immediati e tardivi della bomba atomica, e altre relative ai ricordi del passato della protagonista a Nevers, in Francia. Questo contaminarsi, favorito dalla porosità del soggetto della donna anonima, fa sì che la memoria collettiva della popolazione giapponese, almeno nella prima parte del film, e la memoria soggettiva, di Lei più avanti, rappresentino l’intreccio. Non vi è uno scorrimento lineare del tempo, ma passato e presente si alternano continuamente, come la perfetta allegoria di una determinata situazione comunicativa, e non soltanto tramite immagini ma anche per via delle parole pronunciate dai due protagonisti. Per tal ragione si può affermare che in Hiroshima Mon Amour fabula e intreccio non possono, e non devono, coincidere.
Il ritmo della pellicola è tanto lento, scandito da dialoghi in un continuo fluire, quanto denso, talvolta ricco di silenzi pieni di significato. O ancora da momenti musicali diegetici, si pensi al juke-box alla Tea Room, o extradiegetici, sul leitmotiv17 del film che si ascolta all’inizio e ancora inoltrandoci verso la sua conclusione. Ciò potrebbe essere favorito, in primis, da un’ibridazione tra letteratura e cinema, tanto lucida sulle loro reciproche innovazioni, dal Nouveau Roman e alla Nouvelle Vague, quanto sul desiderio di voler rappresentare la mente che, seppur finalmente consapevole del suo ricordo struggente, sa di essere destinata a dimenticare.
Avendo compreso che D. descrive Lui come un «tipo internazionale»18, e che sarebbe impossibile guardare al film se non attraverso la storia d’amore tra l’uomo giapponese e la donna francese, per quanto possa apparire impossibile la loro relazione o così come è chiara la loro divergenza culturale, la loro reale differenza è al contempo volutamente resa al minimo, e non soltanto per i loro tratti fisici. Loro, personaggi e attori, parlano la stessa lingua.
Lui, architetto giapponese, spinto da una travolgente passione e poi da curiosità nei confronti di Lei, la intrattiene in un alquanto provocatorio dialogo che si svolge per l’intera durata della loro breve relazione d’amore segreta. Lei, donna francese di trentadue anni, si reca a Hiroshima per girare un film sulla Pace e, pur dichiarando più volte di voler ripartire e lasciare quei luoghi, verrà gradualmente, e con sempre maggior profondità e imprevedibilità, trasportata nel flusso dei suoi ricordi, di ciò che l’avrebbe originariamente spinta a recarsi a Hiroshima. E non più quindi nel suo, ripetuto, tutto visto a Hiroshima.
Sollevando il problema della memoria e dell’oblio, D. compie una sintesi di ciò che aveva già compreso Proust, ossia: la memoria risiede in ciò che abbiamo dimenticato. È l’impronta di qualcosa che abbiamo rimosso, ma che ossessivamente richiede di essere portata in superficie, come un’ombra. La vera vita per D., quella profonda, nella regione interna, nella notte, si gioca intorno a questi archetipi che vediamo rappresentati ogni volta in contesti diversi, ma anche con un significare che viene richiesto al lettore. E, nel caso di Hiroshima, allo spettatore. Sembra di abitare – in qualche modo – in un ambiente spazio-temporale che prende vita grazie all’energia della parola e che ha la possibilità di contenere mille immagini, infinite. La parola è come un commento, cerca di riempire gli spazi in cui dovrebbe esserci un’assenza, seppur non ignorando – piuttosto scavando senza fondo nella percezione di sé – la consapevolezza di quell’assenza. Lei stessa, pertanto, afferma: «tutto ciò si ripeterà».
Lo stesso modello narrativo, come campo polarizzato di conflitti, appare sottolineare il paradosso e le contraddizioni nell’insorgere dei ricordi di Lei in contrapposizione con la carrellata di immagini di repertorio, ponendo agli estremi l’iniziale e ripetitiva dicotomia tra passato e presente, tra documentario e film, e poi tra mito e realtà, ma anche tra Eros e Thanatos19 o tra il continuo avvicinarsi e allontanarsi dei due personaggi. Il tutto appare come sottolineato dalla differenza culturale tra i due, e dalla loro reciproca situazione sentimentale, specialmente dal momento che entrambi gli amanti continuano a rimanere insieme pur non potendolo fare: e ponendo, in tal modo, la percezione degli spettatori favorevole a valutare l’idea che possa trattarsi di un incontro, più che di un vero e proprio amalgama.
L’architetto giapponese, anche per tal ragione, sembrerebbe incarnare l’archetipo del guerriero. Un guerriero quasi universale, in cui tutti noi possiamo immedesimarci e pronto a resistere a qualsiasi difficoltà purché il trauma di Lei riemerga in superficie. È come se rappresentasse la parte di Lei rimasta nascosta fino a quel momento. Nel mentre la donna francese, per alcuni versi, sembra incarnare piuttosto l’archetipo dell’ombra, dell’inconscio. Il tramite metaforico, oltreché fisico, attraverso il quale l’inconscio può manifestarsi.
Oltre alla struttura della pellicola, a volte le immagini non coincidono con i lunghi dialoghi tra l’attrice francese e l’architetto giapponese o con le parole in commento, rendendo in tal modo quasi impossibile predisporre su un piano adatto a contrassegnare un determinato equilibrio tra le due semiosi quale abbia una maggiore rilevanza. Piuttosto l’una appare come dipendente dall’altra, essendo talvolta volontariamente entrambe scisse sul piano della rappresentazione come per voler amplificare una determinata suggestione o un preciso significato. Eppure le stesse parole di Lei sono le prime a presentarsi a noi come l’evocazione di qualcosa di già visto, come immagini del passato. La semiosi sembra quindi apparentemente priva di qualsiasi analiticità, il ricordo stesso fa sfuggire quasi la necessità di un racconto. Il percorso della memoria avviene difatti per associazione analogica e per immagini, dove i nessi logici da un’immagine all’altra vengono pressoché eliminati.
Rappresentare il flusso della riproducibilità e del consumo, percepire il flusso sottostante dello spettacolo della vita (energia dei media), potenziare la struttura io/noi, con uno scatto di coinvolgimento e distacco: il realismo del secondo dopoguerra, da Truffaut a Rohmer, cerca di “tenere” il racconto, inglobando i vari livelli nella struttura, che assume dunque valore metaforico. […] ION nasce come risposta al flusso: il soggetto postmoderno può r/esistere solo se acquista margini di libertà, apertura e imprevedibilità. Perciò si plurimizza. E si dispone a più dimensioni.20
Il frammento, in Hiroshima Mon Amour, prende il posto del capitolo rimarcando l’attività del pensiero in relazione all’impossibilità di raccontare quanto è accaduto. Lei racconta di Nevers mentre noi perlustriamo Hiroshima. Creando un dialogo visivo tra passato e presente e assistendo, così, allo stravolgimento di ogni attesa.
La metafora dei corpi è molteplice nella pellicola essendo innanzitutto molteplici i corpi ivi rappresentati. Dai corpi degli abitanti-attori nell’ultima sequenza del film sulla Pace, ad altri – nella realtà rappresentata – trasformatisi in guide turistiche di Hiroshima. Tra massa e manifestazione: i corpi delle vittime seguono la ricostruzione filmica di un ambiente desolato. I corpi sezionati post-disastro vengono presentati nella carrellata al Museo di Hiroshima. Anche qui i visitatori appaiono soltanto per metà, nascosti nell’inquadratura dalle istallazioni disposte al centro di una sala del complesso memoriale. Ciò avviene perfino con i corpi stessi dei due amanti, in apertura. Entrambi vengono inquadrati in sezione e ricoperti da una polvere di ciò che potrebbe dapprima essersi dissolto sul loro abbraccio. Uno scambio, quest’ultimo, che sembra già rappresentare, non lontano da una visione poetica, le rovine generate dall’impossibilità di quella che impareremo a conoscere come la loro histoire idiote.
Al di là della significativa e volontaria assenza in scena della Bomba A, per quel che riguarda il gioco figura-sfondo potrebbe essere interessante soffermarsi sulla scena in interno notte, al mid-point, dove Lei e Lui appaiono di profilo a uno specchio d’acqua, seduti all’interno di una Tea Room e nuovamente incorniciati da una finestra21. Lì entrambi scavano, come Duras e Resnais fecero con i semi della sceneggiatura, nei ricordi di Lei a Nevers.
Lei : Je me souviens, nella camera di Nevers, il ricordo nel ricordo, ta mort qui continue… l’ombra, dice Lei, si estende velocemente agli angoli dei muri della cave…
Inoltre quando Lei parla di Nevers l’inquadratura mobile sulla Loira, accompagnata dalla sua voce fuori campo in uno dei molteplici flashback, sembra quasi ricordare, per un attimo, le suggestioni di Les Mains Négatives22…
E ancora: la musica trasmessa dal juke-box potrebbe rivelarsi un possibile paragone in prospettiva con l’ancor più travolgente e perturbante, quasi rumoristico, avanzare di violini, in un’operazione di connessione, anche lì spazio-temporale e forgiata al contempo dalla parola, sempre in Les Mains Négatives. O anche, spaziando oltre:
il juke-box: come la Madelaine, quando Lei esclama: comme j’étais jeune un jour…23
«La beauté naît du dialogue, de la rupture du silence et du regain de ce silence»24, sosteneva René Char. Pertanto il dialogo, come l’importanza di soffermarsi – seppur con leggerezza – su una mancata opportunità, potrebbe considerarsi sempre attuale.
Il poroso soggetto di Lei appare come la metafora umana del conflitto che si genera nell’assenza dell’amato, nel dolore che ne produce e nell’impossibilità di esprimere tale sofferenza. Ma quel che accade nella cave, pur non essendo meno importante e forse il primo vero approdo nell’inconscio di Lei nella pellicola, non sembra essere comunque ciò che realmente consente l’ampliamento all’estremo del piano percettivo e della consapevolezza, quanto dimostrano di esserlo, piuttosto, le sue parole che indugiano su Hi-ro-shi-ma nel finale. I muri della cantina di Nevers e le sue mani insanguinate sembrano rappresentare il primo tentativo di rimozione del dolore di Lei, in risposta filmica al trauma riportato in superficie nella Tea Room. È un’azione autolesionistica per annientare l’assenza stessa. Lei, nella cave, continua a rivivere in maniera distorta i suoi incontri con il soldato tedesco, piuttosto che scontrarsi a tu per tu con il tentativo fallito di continuare a la loro indissolubile liaison.
Lei sarebbe voluta morire «per amore» ricorda la D., perciò la mancata opportunità di salvare Hiroshima, di partecipare alle riprese di un film sulla Pace, si sarebbe sovrapposta agli occhi di Lei – similmente alle mani insanguinate – come se fosse nel pieno di una narcosi. E ciò, dal suo punto di vista, le avrebbe permesso di essere ancora la se stessa di un tempo, e di non sentire – di conseguenza – il suo personale dolore. Un dolore dimenticato perché, come Lei ripete più volte, siamo destinati a dimenticare. «Ti ho già dimenticato», sono tra l’altro sempre diversi i destinatari del significato di questa frase. Da Nevers, nella Loira, a Parigi e, inevitabilmente poi, a Hiroshima. È quasi un gioco, un viaggio dalle infinite possibili sovrapposizioni e che, alla poetica e avanguardistica esplosione di un tempo lineare, ci mostra le loro intime e dolorose rovine, quelle destinate a riemergere finanche nella più superficiale linea della dimenticanza. Come se fossero loro stessi quei flussi di cui si sono circondati nel mid-point. Una finestra, quasi come se fosse uno schermo cinematografico, incornicia il flusso del fiume e il flusso dei ricordi di Lei, poi seguono: la figura di Lui, di fronte a lei, la bevanda alcolica nella sala da tè nelle bottiglie e le note musicali che iniziano a fluttuare vorticosamente all’improvviso nell’aria. Ciascuno di questi dettagli è come se fosse correlato a un’esplosione.
Sebbene la storia d’amore dei due amanti possa apparire come una cornice resta pur sempre essenziale. Una possibile dimostrazione potrebbe rivelarsi nella somiglianza del loro dialogo alla Tea Room con una tipica seduta di psicanalisi. Al di là della discesa nella cave, gli improvvisi schiaffi di Lui, che la zittiscono nel suo delirio sul finale, sembrano quasi un tentativo di risvegliarla25 dalla sua visione, come se Lei fosse stata – sino a quel momento – sotto un’ipnosi da birra e domande.
«L’idea dell’opera come riflesso, o tentativo di rispecchiamento più o meno riuscito delle relazioni sociali, finalizzato o comunque utile alla comprensione della società stessa»26.
Un’ulteriore presa di coscienza avverrà davanti allo specchio della sua camera d’albergo. L’acqua fredda del rubinetto verrà utilizzata nuovamente da Lei per svegliarsi: «tu non sei morto a tutti gli effetti. Ho raccontato la nostra storia. Ti ho tradito stanotte con questo sconosciuto. Dodici anni che non avevo trovato il gusto di un amore impossibile. Guardami come ti dimentico. Come ti ho dimenticato. Guardami». Lo specchio, in un momento di iper- lucidità, aiuta a svelare ulteriormente la sovrapposizione, nella mente di lei, tra presente e passato. In uno stato di trance, di narcosi.
La città stessa, successivamente, appare anch’essa come ulteriore metafora del corpo. «Ti rincontro», afferma Lei in voce fuori campo, mentre sullo schermo vengono presentate immagini alternate proveniente dalla Francia e dal Giappone. «Io mi ricordo di te», continua Lei: «questa città era fatta della misura dell’amore. Tu eri fatto della misura del mio corpo. Chi sei tu? Tu mi uccidi. Ho fame di fedeltà. Di adulterio. Di menzogne, e di morire, da sempre».
Prima della conclusiva dissolvenza in nero, del ciclico ritorno del motivo musicale iniziale, e di quello che appare come il loro definitivo addio nella camera d’albergo, Lui sembrerà avvicinarsi a Lei come mai aveva fatto prima di quel momento, lasciando che entrambi si identifichino con il nome della loro reciproca città. «Ti dimenticherò. Guardami come ti dimentico. Guardami. Hi-ro-shi-ma. È il tuo nome», dice Lei. Mentre Lui risponde: «È il mio nome, sì. E il tuo nome è Nevers. Nevers in Francia». Il film, in tal modo, si conclude mentre i due si guardano senza vedersi, come rivolgessero il loro sguardo su qualcosa che sembra destinato a restare inesprimibile, quanto – al contempo – a essere sempre sul liminale punto di riemergere in superficie.
5. Conclusioni
Come inevitabilmente accade per ogni catastrofe, le arti – nel loro divenire – cercano di semiotizzare l’indicibile a cui si deve tentare di dare una spiegazione. Qui la catastrofe, con Catastrofe di sfondo in un’eco angosciosa e indicibile, è inaspettata e intimamente universale, è metafora strutturale del crescendo, in un tempo soggettivo dato dal fluire delle immagini e del pensiero irrazionale, di un dolore, di una perdita, personale.
Infine, tentando di riassumere schematicamente quanto esposto finora, e provando a fare riferimento alla tetrade di McLuhan, l’opera di Resnais e Duras sembrerebbe amplificare: il ricordo (traumatico); invertire: il tempo (esteriore->interiore); riscoprire: il linguaggio (nuovo), e rendere obsolescente: la trama.
Bibliografia
A. Abruzzese, P. Mancini, Sociologie della comunicazione, Laterza, Bari, 2011
W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962
M. Duras, L’amante, Feltrinelli, Milano, 2006
M. Duras, Hiroshima Mon Amour, Grove Press, New York, 1961
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2018
G. Ragone, Lo spettacolo della fine. Le catastrofi ambientali nell’immaginario e nei media, Guerini Scientifica, Varese, 2012
G. Ragone, Per la mediologia della letteratura, Aracne, 2019
Filmografia
Hiroshima Mon Amour (1959; Alain Resnais) Les Mains Négatives (1979; Marguerite Duras)
- Jean-Pierre Siméon, La poésie sauvera le monde, Le Passeur, 2017 ↩︎
- M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2018, p. 9 ↩︎
- Ibidem ↩︎
- Il medium-testo gestisce un continuo processo di ibridazione tra “architetture” o “macchine” o “flussi” mediali, segnalando direzioni e conflitti della mediamorfosi e offrendosi come campo di esperienza fondamentale di quelle derive e di quelle lacerazioni; e ancora, il testo come “luogo” di ri/mediazione ed elaborazione di immaginari gioca su metafore e narrazioni archetipiche o stereotipiche eminentemente figurali oltre che strutturali. Per la mediologia della letteratura, G. Ragone, Aracne, Roma, 2019, p. 87 ↩︎
- Ancor prima di essere pubblicato in qualità di romanzo (1960) ↩︎
- Contemporaneamente a I 400 Colpi di François Truffaut ↩︎
- Lei : «J’ai tout vu à Hiroshima» Lui : «Non, tu n’as rien vu à Hiroshima» ↩︎
- M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2018, p. 257 ↩︎
- Per la mediologia della letteratura, G. Ragone, Aracne, Roma, 2019, p. 83 ↩︎
- Lei : «Je suis folle d’amour pour toi». ↩︎
- Lui: «Tuo marito sa di questa storia?» Lei: “No” Lui: «Io soltanto…» ↩︎
- G. Ragone, Lo spettacolo della fine. Le catastrofi ambientali nell’immaginario e nei media, Guerini Scientifica, Varese, 2012, p. 117 ↩︎
- Lui: «Hai cominciato a essere come tu sei ancora» ↩︎
- Lei guarda la sua intima e rimossa catastrofe ripresentarsi dinanzi a sé mentre spalanca i suoi occhi, similmente a come accade nella rappresentazione dell’Angelo della Storia nel quadro di Paul Klee (1920) ↩︎
- Si pensi al documentario Notte e Nebbia (1955), in cui Resnais sviscera l’orrore dei campi di concentramento nazisti. ↩︎
- «L’engagement en littérature, c’est avoir la pleine conscience des problèmes de son propre langage, la conviction de leur extrême importance, la volonté de les résoudre de l’intérieur». ↩︎
- La cui realizzazione è associabile ai due compositori Georges Delerue e Giovanni Fusco ↩︎
- M. Duras, Hiroshima Mon Amour, Grove Press, New York, 1961, p. 109 ↩︎
- Si pensi, ad esempio, alla scena in hotel durante la quale riemerge un primo ricordo legato al passato di Lei a Nevers, subito dopo aver messo a fuoco il dettaglio, nel letto, della mano di Lui, in movimento, mentre è assopito. ↩︎
- G. Ragone, Per la mediologia della letteratura, Aracne, 2019, p. 10 ↩︎
- Di rimando alla scena in nota n. 17 22 Cortometraggio, sempre di D., 1979 ↩︎
- Cortometraggio, sempre di D., 1979 ↩︎
- Più tardi, alla stazione e a pochi minuti dal finale, Lei sembrerà riprendere questo momento di proustiana reminiscenza per formulare un ulteriore pensiero di risposta al precedente: «l’oblio avrà la tua voce. Uguale. Come per lui, trionferà interamente, poco a poco. Tu diventerai una canzone». ↩︎
- R. Char, Fureur et mystère, Gallimard, 2017 ↩︎
- Lei: «È quello il momento in cui non mi sento più malata. Non grido più. Divento ragionevole» […] Lui: «Penserò a questa storia come a l’orrore dell’oblio. Lo so già». ↩︎
- G. Ragone, Per la mediologia della letteratura, Aracne, 2019, p. 82 ↩︎