Alberto Grifi è stato regista e montatore; ma anche pittore, inventore di effetti speciali, irriducibile militante. Un cattivo maestro che ha ribaltato la regola scardinando la forma e i contenuti del cinema grazie a una profonda consapevolezza dei suoi codici.
Alberto Grifi riteneva anomalo utilizzare uno strumento senza conoscerne il funzionamento. Lo affermava prendendo in mano un microfono e chiedendosi in quanti dei presenti sapessero come facesse, a livello meccanico, ad amplificare la voce. È stato lo stesso Grifi, più volte, a ricordare il lavoro artigiano dei genitori, giustificando una sua naturale propensione, quasi genetica, nel comprendere i funzionamenti della macchina. E in questo modo ha approcciato il cinema: analizzando gli usi del suo strumento principale, la camera, passando per le sue emanazioni, le ottiche e gli effetti, e sollevando una riflessione sulla figura demiurgica del montatore. Uno scopo artistico dialettico, ma anche politico. La profonda conoscenza del dispositivo è alla base del linguaggio rivoluzionario di Grifi; linguaggio di contestazione del mercato cinematografico e delle sue forme commerciali, sia in termini di industria culturale che di storie e soggetti rappresentati.
Cinquanta film di consumo destinati al macero vengono recuperati e rimontati rimodulando il senso originario delle scene. In Verifica Incerta, realizzato nel 1964 con Gianfranco Baruchello, grazie ad accostamenti e contrapposizioni, Grifi crea nuovi significati volti a una riflessione di denuncia sul machismo, sulla guerra, sulla loro rappresentazione filmica e sul potenziale manipolatorio del montaggio cinematografico; un montaggio che qui diventa invece strumento di contestazione per smascherare l’omologazione delle trame e le storture del sistema hollywoodiano, reazionario e puritano, in una risignificazione delle immagini stimolante e divertente, che vive ancora oggi in esempi quali Blob.
Transfert per camera verso Virulentia del 1967 è prova di due fondamentali caratteri del cinema di Grifi: la psicoanalisi; le ottiche e gli effetti, spesso realizzati partendo da oggetti di uso comune. Il film è la ripresa dei tableau vivant organizzati da Aldo Braibanti e influenzati dai movimenti del teatro di avanguardia della seconda metà degli anni ’60. Grifi torna così alle sue origini cinematografiche; a quando, al suo primo lavoro da regista, si era occupato delle riprese di Cristo ’63, opera teatrale di Carmelo Bene censurata, con il conseguente sequestro e la distruzione delle immagini realizzate. In Transfert per camera verso Virulentia, gli effetti ottici danno vita a un linguaggio visivo distorto e a tratti psichedelico, in connessione con gli atti spontanei dei partecipanti ai laboratori di Braibanti. Un cinema detto, sbrigativamente, sperimentale; ma che, in modo più appropriato ed etimologico, è esempio vivo di avanguardia intesa come stimolo a spingere oltre, in campi ancora sconosciuti, le formule classiche delle pratiche artistiche di riferimento. Come anche in No stop grammatica del 1967, testimonianza di un happening organizzato alla Feltrinelli di Roma e durato dodici ore, in cui i partecipanti assemblarono pezzi di pellicola magnetica per comporre la colonna sonora. Ancora, la serie di lavori sulla persona e sul lavoro dell’artista Giordano Falzoni, esponente della Compagnie de l’Art Brut voluta da Jean Dubuffet e promossa, tra gli altri, dal sodale di Falzoni, André Breton.
Anna del 1975. Massimo Sarchielli, co-regista del film, incontra a Piazza Navona, luogo di ritrovo della contestazione romana di metà anni ’70, Anna, sedicenne francese di origini sarde, incinta, tossicodipendente e sopravvissuta a una serie di vicende traumatiche in riformatori e istituti. Massimo decide di ospitarla in casa. Tiene un diario delle esperienze, delle depressioni e delle memorie di Anna e, riconoscendo il caso di interesse sociologico, coinvolge Grifi nella realizzazione di un film sulla ragazza: vengono girate scene tratte dalla prima parte della convivenza di Anna a casa di Massimo; Grifi decide, però, di filmare anche prima e dopo il ciak, sfruttando la tensione creatasi sul set. I pidocchi di Anna infestano la troupe, destituendola dal suo ruolo formale di maestranza e coinvolgendola appieno nella realtà quotidiana della ragazza/protagonista, con l’implosione della sceneggiatura di Sarchielli, Grifi e Knauss; Vincenzo, elettricista del film, entra in campo e, facendo un parallelismo con la lotta operaia, rivela il suo amore per Anna: il proletario esautora i registi dal loro ruolo dominante di padroni del set e della storia.
Anna è prova dell’impegno politico radicato nella produzione di Grifi. Non più solo un lavoro sulle forme del cinema, per denunciarne i limiti e le assurdità; ma storie di persone marginalizzate, cinema come testimonianza delle sofferenze di gruppi sociali spesso, e volutamente, trascurati: la droga e il carcere, nel cortometraggio Michele alla ricerca della felicità del 1978, realizzato con il sociologo Guido Blumir (poi sceneggiatore, con Caligari, di Amore Tossico del 1983), dove Michele chiede aiuto per il compagno di cella in preda a crisi di astinenza, ricevendo in cambio spedizioni punitive da parte delle guardie carcerarie. Prodotto dalla RAI, fu censurato dalla stessa; la serie di film su ospedali e metodi psichiatrici, tra cui Il manicomio – Lia e Il preteso corpo del 1977, Dinni e la Normalina, ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti nuclei di follìa militante del 1978, ritorno al fantascientifico distopico dopo il post apocalittico Vigilando reprimere del 1972: la Normalina appiattisce le menti e permette allo Stato di controllare la dissidenza, negli stessi anni in cui l’eroina stava atrofizzando il movimento di contestazione del ’77.
Il cinema di Grifi ha perciò due punti di riferimento teorici. Il primo, la scrittura neorealista di Cesare Zavattini, i cui salotti furono frequentati dallo stesso Grifi in gioventù, esperienza testimoniata nel documentario La prima volta che Zavattini provò a usare un videotape del 1993. Grifi assume, di Zavattini, lo sguardo sociale, e si fa promotore di quel passaggio tra il neorealismo e il realismo sperato dagli intellettuali italiani di inizio anni ’60 (vedasi il Bianciardi de L’integrazione), in un’esigenza personale, sociale e politica, di rappresentazione della realtà circostante tradotta in generi diversi: dagli esperimenti situazionisti al documentario, dal thriller alla distopia. I soggetti prediletti sono la generazione del movimento del ’77 e i metodi repressivi messi in atto dall’autorità per limitarne la spinta costruttiva: il carcere, gli spazi coercitivi degli istituti psichiatrici, l’emarginazione dei contestatori attraverso il discredito sugli organi di stampa. Una militanza mai esauritasi, culminata in Leoncavallo, i giorni dello sgombero del 1994, cronologia degli sgomberi del centro sociale milanese, realizzato in coro con Paola Pannicelli e il Collettivo Video csoa Leoncavallo; ma è anche una riflessione su progetti di rigenerazione in aree urbane dimenticate dalle amministrazioni locali; ancora, traccia dell’impegno dei movimenti popolari per vivere e animare, in modo alternativo, spazi abbandonati, non solo riqualificandoli, ma rendendoli punti di riferimento per la cittadinanza; non ultimo, documento storico di denuncia dei metodi repressivi riservati a tali esperienze, e all’uso della violenza da parte delle forze dell’ordine nei confronti degli attivisti. La forma, dopo una selezione di immagini tra più di quindici ore di girato, è quella di lunghi piano sequenza immersivi in grado di riportare a quelle giornate e a quegli anni, in un processo di annullamento delle capacità manipolatorie del montaggio.
Secondo, gli strumenti. Grifi è perfetto esempio del concetto di cultura in cui la ragione strumentale guida la capacità dell’artista nell’usare lo strumento stesso per veicolare contenuti narrativi, sociologici, politici. Una teoria alla base dell’idea di neoavanguardia proposta da Renato Barilli, per cui se prima l’essere umano usava lo strumento per sopravvivere, ora, dopo la modernità e la comparsa del mercato culturale, lo utilizza per creare, comportando così una serie di riflessioni di stampo estetico e semiologico sul prodotto finale. In Grifi si ha l’impressione, però, che gli strumenti non siano solo meccaniche della produzione intellettuale, ma servano al regista stesso per dare linfa a una necessità personale, quasi una missione, di interrogare il reale nelle sue espressioni più radicali, partendo dall’umile e paradossale consapevolezza, più volte espressa da Grifi, per cui l’unica società che si potrebbe rappresentare fedelmente è quella priva non solo di televisioni e schermi, ma anche di specchi.
Rivoluzionario, sognatore e instancabile idealista, Grifi ha prodotto una filmografia azzardata ma commestibile, che può essere vista come diario della controcultura in Italia, soggetto per riflessioni intellettualistiche, esercizio di stile alla Queneau, stimolante serie di prodotti cinematografici su temi intriganti e periodi irripetibili, con forme sorprendenti, ma sempre calcolate e razionali.
Come dice Grifi, infatti, la deflagrazione dei codici, dei set e delle storie, quando si è consapevoli di ciò che si sta facendo, apre la porta alla sensazione più gratificante: accogliere l’inaspettato.