“IL DONO”: IL REGISTA MICHELANGELO FRAMMARTINO RACCONTA IL SUO PRIMO LUNGOMETRAGGIO TRA CINEMA E VIDEO-ARTE

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Il 16 ottobre 2021, il regista Michelangelo Frammartino si trova a Caulonia, paese della Calabria ionica di cui è originario, per condurre una Lectio Magistralis sul suo ultimo film ‘Il Buco’, premiato a Venezia. Mi trovo da quelle parti e, da questo incontro fortunato, nasce il contatto che ha reso possibile l’intervista tre anni dopo, nel marzo 2024.

Isabella Capurso gestisce a Milano ‘Le Poisson Lumière’, spazio di condivisione culturale e artistica, dove quest’intervista è stata proiettata in un evento dedicato alla poetica di Michelangelo Frammartino.


IC. Ventuno anni fa, nel 2003, è uscito il tuo primo lungometraggio, ‘Il dono’, cui sono seguiti ‘Le quattro volte’ nel 2010, e ‘Il buco’ nel 2021. I tuoi film si svolgono in Calabria, a Caulonia, un piccolo paese della Locride in provincia di Reggio Calabria, che ha dato i natali ai tuoi genitori. Tuttavia, tu sei nato e cresciuto a Milano, dove hai studiato prima Architettura e poi Cinema. Dunque, se è vero che artisticamente non avrei dubbi nel collocarti in Calabria, biograficamente devo collocarti -almeno un po’- a Milano.

Vuoi raccontare come, intorno al 2000, è nata l’idea di girare ‘Il dono’ e come mai la scelta di Caulonia?

MF. Caulonia è il luogo più importante della mia vita insieme a Milano, ma anche in conflitto con Milano. Quando cominciai ad appassionarmi di cinema -dapprima solo come spettatore- presi ad andare di meno in Calabria. All’epoca frequentavo a Milano la facoltà di Architettura e contemporaneamente la Scuola di Cinema. In quello stesso periodo, spendevo molto del mio tempo nelle cineteche milanesi. Quindi, di fatto, ogni spazio era saturo e avevo smesso di scendere al Sud. E però, a un certo punto, nel momento in cui questa dimensione spettatoriale ha cominciato a trasformarsi in una necessità pratica ed espressiva personale, mi sono accorto di aver bisogno di un luogo che mi permettesse una libertà operativa e, quasi senza accorgermene, questo luogo è diventato la Calabria. Ecco dunque che, dopo un’assenza di molti anni, durante la quale io mi ero formato, sono tornato a Caulonia. La mia formazione mi riportava lì, un luogo dove sentivo lo spazio e il tempo delegati, e un sentimento di libertà che non trovavo invece nel luogo in cui ero nato e mi ero formato. Questo momento coincide con la realizzazione di un primo lungometraggio [‘Il dono’] che, nella mia testa, non nasceva neppure come tale, bensì come un lavoro di una durata non precisata e che però, fortissimamente, doveva farsi lì, nella terra mia e dei miei genitori. Allora ho cominciato a interrogarmi, e a comprendere, che non era stato un caso tornare a Caulonia e che, appunto, lì sentivo di trovare delle condizioni molto particolari, che poi sono le stesse che mi hanno convinto a tornarci anche successivamente.

IC. Per quanto riguarda la messa in opera de ‘Il dono’, a parte il ruolo della protagonista che è affidato a un’attrice [Gabriella Maiolo], gli altri figuranti sono non soltanto attori non professionisti, ma gli stessi abitanti di Caulonia, cui hai sostanzialmente chiesto di interpretare sé stessi.

Com’è stato gestire questa umanità all’opera e come mai questa scelta?

MF. In realtà ancheGabriella Maiolo non era un’attrice professionista, ma una bravissima scenografa e una danzatrice. Io l’avevo conosciuta durante un Festival dove ballava delle tarantelle e aveva mostrato una grande capacità di coinvolgere. Abbiamo dunque cominciato a dialogare e provato a immaginare che potesse essere lei questa figura femminile nella mia opera. Tra l’altro, lei è di Roccella Jonica, a un passo da Caulonia, dunque abbiamo pensato che si prestasse a incarnare bene le figure che costituiscono il film. 

L’altra figura centrale attorno cui si costruiva l’opera era mio nonno. Lui è salito a Milano verso la fine di agosto e io ho lavorato con lui e Gabriella a casa. Non voglio dire che abbiamo lavorato sul personaggio -poiché non so quanto questa figura diventi veramente un personaggio nel film- ma diciamo che abbiamo iniziato a stare insieme, a utilizzare la telecamera anche solo per filmare una partita a carte. Insomma, abbiamo fatto entrare la macchina da presa nel nostro rapporto fino ad accettarne la presenza. Gabriella è stata estremamente disponibile a entrare in questo gioco e quindi ci siamo un po’ preparati. È poi vero che [nell’opera] tutto l’intorno è dato dal paese che entra ed esce dalla storia, un po’ ospitante un po’ ospitato. Questo ingresso è avvenuto, in alcuni casi, con dei patti. Per esempio, ci siamo accordati con la tabaccaia e con alcune persone che frequentavano Piazza Seggio. Oltre a loro, c’erano altre figure che entravano loro malgrado [nella storia], nel senso che noi eravamo una troupe talmente piccola, talmente discreta, che molte cose avvenivano [davanti alla telecamera] perché semplicemente la nostra presenza non risultava o non risultava invasiva. È il caso, ad esempio, della scena del funerale e della preparazione della processione. Questa e altre vicende accadevano mentre noi giravamo e finiva che scivolavano dentro il film: noi accogliendo il quadro e il quadro accogliendo noi. Questa morbidezza era data dal fatto che mio nonno era un abitante del luogo e dunque si muoveva con grande facilità, in qualche modo coinvolgendo e lasciando che altre figure si avvicinassero. Tra scena e fuori scena, tra finzione e non finzione, il confine era indebolito dalla nostra, come dire, ‘debolezza produttiva’.

IC Un altro grande ‘protagonista’ -rigorosamente tra virgolette- della tua poetica è rappresentato dalla dimensione degli animali (non umani). In particolare, in questo come nei tuoi altri film, vi è una presenza importante di animali del territorio. Questi sono ripresi con la stessa morbidezza che, dicevamo, è riservata alla sfera umana, e dunque nelle loro attività ordinarie, ma ci sono episodi in cui i tuoi animali sono diventati delle star.  È il caso della capra sul tavolo de ‘Le quattro volte’ o del lungo piano sequenza del cane, nello stesso film. Qui, constatiamo che gli animali fanno l’azione.

Che rapporto c’è tra casualità ed esigenze registiche, nella tua poetica?

MF Hai ragione nel dire che Wuk, il cane de ‘Le quattro volte’, è diventato una star, perché fu premiato a Cannes! Nella realizzazione del ‘Il dono’, e già in qualche esercizio precedente, era diventato per me molto importante che lo sfondo, quello che stava alle spalle dei personaggi, venisse un po’ emancipato dall’idea di… Sfondo. Quello che abbiamo anche io e te in questo momento alle nostre spalle, no? Cioè, noi ora siamo i protagonisti e alle nostre spalle c’è una dimensione inconsistente, perché serve solo per riempire il quadro… Ecco, io ho cominciato, invece, ad essere affascinato dal fatto che l’inquadratura contenesse anche ‘altro’ e che questo altro, che sembra secondario, non fosse invece così secondario, che dovesse altresì aver parola, nel senso di assumere un suo statuto, una sua rilevanza. Di lì, ho cominciato ad essere sempre più attento nei confronti della presenza degli oggetti, della vegetazione e ovviamente degli animali, in qualità di presenze molto importanti nella scena al pari dei personaggi umani. Ecco, questo è diventato via via sempre più importante per me.

Ovviamente, però, coinvolgere queste presenze non significa che tu possa esattamente dirigerle, e dunque tutto ciò, inevitabilmente, introduce il problema del caso, che è una variabile importante nella conduzione del lavoro. Il caso, il disordine ingovernabile che entra in un’opera, è in realtà un grande contributo della vita al tuo lavoro; perché è chiaro che, tendenzialmente, in un set ci si chiude, si mettono dei cancelli, in modo che le variabili ingovernabili non entrino a mettere in crisi il progetto e gli investimenti economici. Però, d’altro canto, questo significa anche chiudere le porte alla vita e, invece, in questi piccoli lavori tale timore poteva venir meno e si potevano aprire porte, finestre, spostare pareti e lasciare che l’ingovernabile, cioè la vita, venisse a far parte del progetto.

Questo è stato possibile, tuttavia, a fronte di un grande lavoro di preparazione e di osservazione. Non si trattava di aprire le porte nel senso di accettare qualsiasi cosa, ma di trovare un modo per dialogare con questo ‘ingovernabile’ e quindi di accoglierlo. Non ‘dirigerlo’ in senso stretto, ma al limite ‘prevederlo’. Per esempio, la questione degli animali ne ‘Le quattro volte’ è una questione complessa. In effetti, in realtà, la mia lunghissima osservazione mi aveva messo nelle condizioni di prevedere e in qualche modo di innescare dei processi. E questa non era una vera forma di direzione, ma un modo di innescare accadimenti e quindi di rimettere in discussione l’idea di regia, di messinscena, di direzione, che è qualcosa che mi interessa sempre molto.

IC Quindi tu, approcciando la trama del tuo film, sapevi già che saresti stato aperto ‘al caso’ durante le riprese…

MF Esattamente. Nel momento in cui decidi che il tuo cinema sarà fatto di personaggi umani, ma che sono non attori, apri la porta alle loro pratiche, cioè non puoi dirigerli, ma accogliere le loro azioni e le loro esperienze, che arricchiscono quello che stai facendo. Ugualmente, apri la porta a presenze animali, vegetali, al meteo, … Il che significa che stai entrando in dialogo con una dimensione non controllabile che accetti che ci sia, anzi, che vuoi che ci sia. Questo tipo di approccio ricorda un po’ la ‘Land art’, nel senso che lavori con una materia territoriale e geografica. È un lunghissimo lavoro di osservazione che ti permette, in qualche modo, di capirne il linguaggio e quindi poi di utilizzarlo. Questo concetto sta certamente alla base [del film], ma non significa che dietro non ci sia un lavoro molto preciso, cioè che le cornici che ospitano questo ingovernabile siano molto precise e che ci si muova all’interno di campi che il regista ha prestabilito.

[Per quanto riguarda ‘Il dono’], ricordo che era fallito un mio progetto milanese, un’installazione urbana, e nel giro di qualche settimana, in quella malinconia che sempre ci assale quando qualcosa a cui tieni salta, c’è stata una reazione: la volontà di andare giù [in Calabria] e sperimentare quella libertà che avevo sempre respirato fin da bambino, che mi aveva sempre portato lì con una gioia immensa e una grandissima emozione. Ho sentito il bisogno di respirarla nuovamente e, però, con una ambizione progettuale. In questo senso, ‘Il dono’ è stata una scelta piuttosto impulsiva, che cercava di nutrirsi di una libertà operativa, della possibilità di mettere la macchina da presa ovunque, senza che nessuno venisse lì a dirti ‘No! Cosa fai qui?’. Ma accogliendo in quella maniera meravigliosa che fa parte della nostra terra, della mia terra. Dopo la realizzazione, però, inevitabilmente mi sono dovuto porre delle domande. Perché lì? Che cosa avevo trovato? Che cosa continuavo a trovare? Passai l’inverno successivo a Caulonia, guardandomi attorno e cercando di comprendere delle cose di una terra cui io sento di appartenere. Sono passati più di vent’anni dalle riprese de ‘Il dono’, ma sento che ancora oggi, comunque, ho voglia di tornare lì.

IC La tua poetica si distingue, tra le altre cose, per essere aperta a più interpretazioni e, in questo, richiede qualcosa allo spettatore, che diventa un contributore di senso. Se è vero che questo avviene ogni qual volta un’opera viene fruita, è altresì vero che, nel tuo caso, la chiamata dell’autore nei confronti dello spettatore è un tratto caratterizzante e apertamente perseguito a livello narrativo. Io, da spettatrice, devo cominciare a pensare al senso de ‘Il dono’ già a partire dal titolo. Mentre lo guardo vado a pensare ‘ma il dono qual è?’ e mi vengono in mente delle possibilità diverse. Lo stesso meccanismo di riflessione si accende nel finale: il film termina lasciando lo spettatore con la necessità di pensare. Ma anche in tanti altri casi, ad esempio quando la telecamera indugia per un tempo lunghissimo su uno scorcio di paese o su una stradina che taglia in due un paesaggio verdeggiante. Ecco, in tutte queste occasioni io sento uno stimolo a ‘cercare qualcosa’. 

Quanto è elastico questo schema? In altri termini: al di là di tutto, c’è una chiave di lettura che, almeno agli occhi del regista, è dominante?

MF Rispondo con un po’ di imbarazzo, devo confessarlo. All’epoca [de ‘Il dono’], invece, lo raccontavo con una certa convinzione. A me interessava moltissimo questo aspetto che tu hai descritto benissimo, cioè la partecipazione dello spettatore [all’opera]. E tra l’altro, venendo più dalla video-arte che dal cinema, ero affascinato dalle installazioni interattive, colpito da quei lavori che si nutrono della partecipazione del pubblico o che, addirittura, senza il pubblico non esistono. Quel tipo di installazioni, ad esempio, dove uno spettatore, entrando, innesca degli accadimenti, e senza il quale l’opera non si realizza. E questo mi sembrava fondamentale anche al cinema, nonostante il cinema sembri chiuso perché ovviamente il lavoro è montato una volta per tutte. In questo senso, ‘Il dono’ è stato chiuso nel 2003. E quindi come fa a essere interattivo? Io però ero convinto che potesse esserlo, attraverso una dimensione poetica, cioè il fatto che nel film si generassero delle simultaneità, che le immagini potessero ospitare delle letture differenti, eppure  compresenti. E ‘Il dono’ era un concetto che mi sembrava fondamentale in tale ottica. In quegli anni c’erano degli stimoli intellettuali interessanti, c’era il lavoro per esempio del filosofo francese Derrida, che proponeva una riflessione filosofica su alcuni concetti che sono, appunto, mobili, ovvero fatti di paradossi che non si risolvono. Il dono era uno di questi. Il ‘dono’ è qualcosa che noi concepiamo, eppure è impossibile, perché un dono, in realtà, crea sempre un debito, anche semplicemente perché rammenti di averlo ricevuto. E allora, però, non è più un dono, è uno scambio. Eppure, noi abbiamo la concezione del ‘dono’, quindi il dono dovrebbe esistere e sparire nel momento in cui viene fatto, perché in verità tu permani in una condizione di debito, e quindi di scambio e non di dono. Ecco, io volevo che questo film potesse essere fatto di questa maniera, cioè che il pubblico si trovasse in situazioni di spaesamento vitale, cioè che si trovasse spaesato e costretto a scegliere. Quindi il titolo ‘Il dono’ veniva da questo. E il film cercava in qualche modo di costituirsi di questi paradossi. Mi ricordo, per esempio, che la casa del vecchio aveva un tetto all’interno, una montagna di tegole: mi sembrò un luogo paradossale perché il guscio stava dentro! Ecco, perseguii questa dimensione in tutto il film perché volevo che il pubblico si trovasse continuamente spaesato, ma in una maniera vitale, cioè costretto a prendere posizione. Mi piaceva pensare che ‘Il dono’ fosse un po’ come un’installazione interattiva che non c’è, non esiste, se non a patto di una grande partecipazione, di una grande presa di responsabilità da parte del pubblico.

Vent’anni fa queste cose le dicevo con grande convinzione, ora le testimonio, nonostante ancora mi accompagnino.

IC Prima di dirigere ‘Il Buco’ sei stato autore di cortometraggi e video-installazioni. Che rapporto intercorre tra questo genere di lavoro, che ti avvicina più al mondo della video-arte, e quello di regista di lungometraggi? Come è avvenuto il passaggio e come guardi retrospettivamente a quelle opere?

MF In Accademia sto lavorando con gli studenti proprio su queste cose. Potremmo dire che il fenomeno della video arte è stato un fenomeno meraviglioso che ha occupato alcuni decenni, ma che forse si è concluso, perché gli strumenti sono cambiati -anche se magari qualcuno non la pensa così. Intendo dire che, con l’avvento del numerico, un video artista e un cineasta finiscono per usare lo stesso strumento.  Pertanto, quell’epoca meravigliosa in cui i supporti erano molti e vari così come i tipi di opere realizzabili, forse si è conclusa. Però, ragionare su quelle epoche aiuta a capire in quanti modi diversi puoi utilizzare gli strumenti e come poi questi si possano anche ibridare. Ci si trova in uno strano paradosso: da una parte strumenti con identità precise, dall’altra le relative contaminazioni che possono generare qualcosa di molto interessante.

[Nel momento de ‘Il dono] mi trovavo a essere affascinato dalla dimensione immersiva delle installazioni interattive, e devoto all’opera dello Studio Azzurro, un gruppo che lavora, produce e crea [video-arte] a Milano, allora capitanato dalla personalità affascinante di Paolo Rosa (che purtroppo nel 2013 è venuto a mancare). Lo Studio Azzurro mi ha insegnato molto in una Milano in cui, in quegli anni, a me sembrava che non vi fossero molti maestri… Nel momento in cui io ho cominciato a utilizzare la macchina da presa, ho cercato in qualche modo di assorbire quella lezione. E ancora oggi mi rendo conto che, con dubbi, con perplessità, questi ragionamenti mi accompagnano ancora oggi.

IC Ne ‘Il dono’ vediamo all’opera tre protagonisti: gli esseri umani, gli animali non umani e il paesaggio sia naturale che antropizzato. La tua rappresentazione, seppur si svolga attorno a un’azione che vede degli umani all’opera, mi pare non stabilisca una predominanza assoluta di uno di questi elementi a discapito degli altri, secondo uno stile che da alcuni è stato definito ‘contemplativo’. Questo noi lo vediamo nella scena, ma anche lo sentiamo, poiché tu hai fatto un uso del sonoro tale da evidenziare la pariteticità di elementi umani e non umani. Io da spettatrice ricevo questo punto di vista come qualcosa che chiama in causa non solo istanze per così dire spirituali e poetiche ma anche politiche. È qualcosa in cui ti ritrovi?

MF Rischia di sembrare un po’ ambizioso, però mi ritrovo. Soprattutto nel momento in cui pensiamo che il contributo di chi viene a vedere il film è fondamentale, no? Addirittura, quasi c’è la speranza che un film sia come un’installazione interattiva, cioè che non esista senza un contributo, che ci sia quasi una collaborazione autoriale con chi viene a vedere in sala. E quindi crediamo in un’assunzione di responsabilità da parte di chi fruisce l’opera e le immagini, con la loro grande potenza seduttiva, sono uno dei grandi strumenti di acquisizione del consenso -forse il principale addirittura. Dunque, quando cerchi di realizzare delle immagini che non vogliano compiacere, che non siano compiaciute, che chiedano una collaborazione, che non siano chiuse, ma aperte, di cui il fruitore si impossessi, ecco che tutto questo ha, se vuoi, un risvolto politico, perché vuol dire far ‘prendere posizione’, vuol dire ‘scegliere’.

IC La tua opera ‘Il buco’ ha fatto più clamore rispetto alle altre tue opere, a livello di pubblico, per il Premio della Giuria a Venezia. È vero tuttavia che, seppur non a Venezia, in realtà anche le tue opere precedenti sono state variamente premiate e, anche come video-installatore, tu sei stato prodotto. Quindi possiamo dire che il valore del tuo lavoro è riconosciuto da tante parti e anche da molto tempo, seppur non sia assimilabile per stile e commerciabilità al mainstream.

Vuoi spendere due parole su quella che è la tua esperienza di regista e autore indipendente nel settore del cinema che è arte ma anche industria?

MF. È una domanda complicatissima. Ci sarebbero tantissime cose da dire sulle inevitabili difficoltà che si incontrano nel lavorare nella maniera in cui lavoriamo, nel realizzare i progetti per come pensiamo che debbano essere. Senza piagnistei, penso sia un po’ così per tutti: le difficoltà sono tante. Per esempio, questi lavori sono sempre delle coproduzioni perché non si potrebbero realizzare con risorse solo italiane e quindi si deve sempre [andare all’estero]. Io sono molto fortunato a riuscire a farlo e realizzare delle coproduzioni. C’è un problema legato a questi progetti e al loro sviluppo, cioè al loro tempo. Quando ti dico che per ‘Il dono’, che è l’oggetto più indipendente che ho diretto, non esisteva una vera casa di produzione, è perché c’è un tempo di ricerca, di sviluppo, che non è previsto dai protocolli produttivi. Il cinema, e il nostro in particolare, dovrebbe nascere nella stanza dell’autore -così ci dicono alla Scuola di Cinema, si dovrebbe scriverne un progetto, una storia, e poi, con l’aiuto di un produttore, la sceneggiatura dovrebbe entrare nella fase di spoglio, per cui cominci a prendere corpo. Questo altro cinema di cui stiamo parlando, invece, è il risultato di un corpo a corpo con la materia, con i luoghi, con le persone, lunghissimo. I miei lungometraggi sono lavori di anni e anni, e io sono onorato di avere la cittadinanza di diversi paesi calabresi, perché ero cittadino di fatto, oramai, per quanto ci avevo vissuto. Per ‘Il buco’, io e Giovanna Giuliani abbiamo vissuto a lungo a San Lorenzo Bellizzi, diventando di fatto parte del paese, dove abbiamo finito per avere molti affetti. Per cui non accade quello che accade normalmente, cioè che l’autore scriva un progetto e poi, assieme alla produzione, si provi a capire come e dove realizzarlo. Si lavora lì per anni, quindi è anche molto difficile avere dei fondi di sviluppo adeguati, perché il fondo di sviluppo serve per la scrittura, per delle ricerche generiche, mentre questo cinema, per esempio quello de ‘Il buco’, significa anni di speleologia, di lavoro nel territorio, nelle montagne, per imparare a muoversi, di conoscenza. È un cinema ‘indipendente’ proprio rispetto a tutta una serie di logiche. Anche questo fatto dell’ingovernabile, di cui abbiamo parlato, significa che il progetto è rischioso. Per esempio, il lungo piano sequenza de ‘Le quattro volte’ – quello col cane al quale facevi riferimento prima- è un pilastro centrale del film, ma è un piano sequenza che può venire o non venire. Questo non è contemplato da una produzione, tendenzialmente, perché non può accadere che una scena madre venga male o non venga affatto. Quindi ci sono tutta una serie di elementi che rendono questo tipo di lavori indipendenti complessi da realizzare, e bisogna sempre trovare delle vie per poterli supportare, perché effettivamente richiedono un sostegno economico significativo.

IC Come diresti che è cambiata la tua poetica nei 20 anni intercorsi tra ‘Il dono’ e ‘Il buco’, se pensi che sia cambiata?

MF Non so se so rispondere a questa domanda perché, in fin dei conti, i film li distingui e allo stesso tempo non li distingui. Per certi versi, è come se i film facessero parte di un unico lavoro complessivo, pur con le loro differenze. Nella vicenda de ‘Il buco’, io e Giovanna Giuliani partivamo dall’idea di un’esplorazione speleologica. Tuttavia, frequentando il mondo della speleologia, ci siamo accorti che i pastori erano delle presenze molto importanti, perché guidano gli speleologi nella ricerca degli anfratti, e quindi il pastore è entrato nella storia. Quando mi sono reso conto che stavamo decidendo di mettere per la terza volta un ottantenne nel progetto, ho dovuto prendere atto di una continuità. Oppure riaccade ancora una volta che gli oggetti e le altre presenze [dello ‘sfondo’] diventino necessari e contendano lo spazio all’umano. Quindi mi è evidente che c’è un lavorio che continua, insieme a delle novità. Per esempio, constato che la macchina da presa si allontana di più dai soggetti, che il campo si allarga e che delle cose stanno cambiando. Insomma, ci sono elementi che permangono e altri che si spostano, però all’interno di un percorso di lunga data che presenta una sua continuità.

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