LA TANA: L’INCONTRO DI ANIME SOLE NEL FILM D’ESORDIO DI BEATRICE BALDACCI

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Da una strada sterrata di campagna può nascere un racconto, una grammatica delle
immagini scossa soltanto dall’incontro estivo di anime sole. L’incipit dell’opera prima di
Beatrice Baldacci, La Tana (2021) – finanziata dalla Biennale College Cinema e
presentata in anteprima alla 78ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia – pare la
perfetta cornice di un amore adolescenziale, mélo dai toni rohmeriani, con i giovani
amanti che quasi si somigliano, mentre giocano a inseguirsi negli orizzonti di una
campagna fuori da ogni luogo.


Ma la cornice non è la sua opera e la vita fuori città non è poi così rassicurante come
potrebbe sembrare. Tra i giorni ordinari di inizio estate dove il bonario e mite Giulio
(Lorenzo Aloi) passa il tempo ad aiutare i genitori nell’orto di casa, si fa largo l’arrivo di
una vicina, Lia (Irene Vetere), severa e impenetrabile figura, da subito disinibita nella sua
nudità corporale e mai emotiva. Dapprima accessibile solo in lontananza mentre cattura
con lo sguardo del suo smartphone i contorni del proprio giovane vicino; poi è una finestra
a proteggerla nella tana dalla vicinanza di Giulio. Gli incontri tra i due procedono a stento;
si cercano fiutandosi tra un’infanzia offuscata e la ludica punizione di giochi mortiferi,
come se amare significasse anzitutto ammettere le ipotesi del dolore. Ecco, allora che i
dieci passi all’indietro mano nella mano prima del dirupo o la fossa scavata dove Lia
desidera fare l’amore con Giulio non sono altro che indizi seminati per smascherare l’altra
faccia della realtà, sotto la sentimentale superfice che prima gli faceva da scudo: Lia non
è tornata in quella casa di campagna per trovare l’ispirazione, come suppongono i genitori
di Giulio, ma nella sua tana, appunto, è chiamata a curare la sopravvivenza di sua madre,
affetta da una terribile malattia degenerativa.


Come nell’omonimo racconto kafkiano, la Tana di Lia pare ben assestata; è accorta che
non ci siano buchi o forature da cui qualcuno possa entrare. Ma anche le più grandi
fortezze a volte nascondono zone d’ombra, e solo quando il romanzo di formazione ruba
la scena alla cronaca della fine dei giorni, allora anche le mura della tana paiono meno
inviolabili e il mondo esterno agli occhi di Lia forse non ha più l’aspetto di un estraneo
invadente. Quando lo capisce, non le resta che lasciarsi seguire da Giulio nei chiaroscuri
della propria casa per spogliarsi del suo vero segreto e lasciare, proprio come il
protagonista de La tana di Kafka, uno spiraglio per il mondo là fuori.
È già un cinema umano e umanista quello di Beatrice Baldacci che al suo esordio nel
lungometraggio ripropone il tema della malattia del genitore, dopo il precedente corto
Supereroi senza superpoteri (2019) premiato a Venezia nella sezione Orizzonti, dove
l’archivio di famiglia non era che il lascito per l’elaborazione dell’infermità della madre.
La tana raccoglie il testimone nell’assertività di un montaggio che sa elogiare la lenta
simmetria di due sguardi: quello autoriale e quello della stessa Lia, cacciatrice digitale di
immagini rurali da proiettare in dono per la madre convalescente. I figli allora
accudiscono i genitori nella spettatorialità di frammenti del reale che diventano cura, o
quantomeno deterrente al buio casalingo del proprio malessere. È forse una tana fin
troppo modesta quella immaginata da Baldacci nel tratteggiare un’opera figlia dell’era
pandemica che lascia pensare a una questione ben più ampia della sola auto-narrazione;
ognuno ha la propria stanza, che, tornando a Kafka, protegge più di quanto si possa
pensare. Ma la protezione di un casale di campagna rischia di confondersi con la nevrosi,
tra le forme di un’estetica di volti forgiata sul gusto forse smisurato del primo piano che
divampa nel finale, tra la compassione filiale e l’affresco di un fiore che non fiorisce (quasi) mai.

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