Ogni festival incentrato sul contemporaneo ci pone davanti alla stessa domanda fondamentale: in che direzione sta andando il cinema? Il caso del Ribalta Experimental Film Festival è in questo senso emblematico. L’attenzione che questa manifestazione culturale pone verso un cinema marginale e diverso permette di rintracciare traiettorie inedite nel campo della ricerca filmica. Strade da percorrere, dunque, nel senso di proposte tecniche e teoriche proiettate verso un futuro incerto. Ma anche nel senso di linee da tracciare che, saltando da un film all’altro, tessono una complessa rete di pulsioni individuali e umori collettivi. Linee che si diramano e si intrecciano, tanto da disegnare una forma nuova, inedita, che sta poi a noi decifrare e diffondere.
Questo piccolo festival che da alcuni anni si svolge a Vignola, in provincia di Modena, permette di muoversi in un territorio critico inusuale, soggettivo e anarchico: la selezione, diretta da Giovanni Sabattini, valorizza infatti l’incontro tra film sperimentali che abbattono qualsiasi convenzione formale e narrativa, spingendoci di conseguenza verso possibilità critiche alternative.
Mi concentrerò unicamente su due sezioni del concorso: Metonimie e Body art. Queste categorie, che sono ovviamente da intendere in modo fluido e aperto, esprimono con forza due territori di ricerca tra loro contrari e in attrito. La prima fa riferimento ai luoghi, concreti o virtuali, che animano le immagini di artisti come Sarah Ballard e Emmanuel Piton. La seconda si rivolge invece al rapporto tra immagine e corpo, dividendosi tra sperimentazioni performative, riuso di materiali d’archivio e animazione digitale. Due categorie che determinano una tensione di forze contrarie, generando una sorta di frattura all’interno della ricerca contemporanea: da un lato l’annullamento di qualsiasi traccia corporea, o comunque la valorizzazione di scenari che sovrastano, cancellano o ridicolizzano l’intervento umano; dall’altro l’esaltazione di nuove possibilità del corpo, in un’esplorazione del dinamismo delle masse, del trasformismo individuale, di scenari interiori e sottocutanei.
Ad aprire Metonimie è Becoming Unreal, di Viktor Brim, in cui i progetti tridimensionali di alcuni edifici ultramoderni di Istanbul vengono attraversati da uno sguardo fluttuante e artificioso. Un nuovo aeroporto, enormi moschee e hotel di lusso sono esplorati nel pieno di un silenzio innaturale, in un procedere lento e ipnotico che esclude qualsiasi segno di umanità dalla rappresentazione. Al suo estremo opposto si trova invece ENEZ, di Emmanuel Piton, che non a caso chiude la rassegna. Se il cortometraggio di Brim valorizza il carattere virtuale e alieno su cui stiamo fondando l’immagine del futuro, il documentario poetico del francese Piton si concentra sulla concretezza della memoria, dell’immagine filmica e dei gesti umani in rapporto a una natura travolgente e violenta. Filmato in uno splendido 16mm, ENEZ esplora il paesaggio dell’Île de Sein – una piccola isola al largo della penisola bretone – con sguardo tragico e insieme effimero. Questo racconto di pescatori che sono stati divorati dall’oceano e di altri che, nonostante tutto, hanno deciso di continuare a vivere e lavorare su un’isola destinata ad essere sommersa, ricorda per certi versi i documentari etnografici di Vittorio De Seta, con cui condivide il senso di sublime impotenza di fronte ai fenomeni naturali più impetuosi.
Degno di nota è anche il lavoro di Sarah Ballard che, con Heat Spells, propone un punto di vista alternativo sul mito della Fontana della Giovinezza. Questo mito permette a Ballard di riflettere sulle trasformazioni del paesaggio di St. Augustine, in Florida, attraverso un’analisi delle forme del turismo che attraversa media e stili tra i più disparati (cinema d’osservazione, home movies vacanzieri, mappe turistiche, antiche illustrazioni…). Se è vero che questa mescolanza di tecniche, materiali e dispositivi è comune a molti film in concorso, Heat Spells è in questo senso uno degli esempi più riusciti e convincenti.
La sezione Body art è caratterizzata da una profonda dicotomia. Da un lato degli esperimenti di video-performance, come nei corti di Eleonora Manca e José Cruzio, dall’altro un tentativo di ibridazione più profonda tra corpo e immagine per mezzo dei materiali d’archivio e tecniche di manipolazione dell’immagine. Se in entrambi i casi si tratta di cogliere la mutabilità e la fragilità di uno stato corporeo e identitario nell’economia della società contemporanea, le performance filmate presenti in concorso risultano in questo senso insufficienti (sul piano teorico, anzitutto) e stilisticamente anacronistiche. Ben diverso è il caso di MRI or Magnetic resonance imaging di Carolina Meza o quello di Viva la notte di Francesco Zanatta che, nei loro flussi di fotogrammi confusi e sfocati, colgono l’immagine filmica nel suo divenire corpo.
Il breve corto della messicana Meza sfrutta delle immagini di risonanza magnetica per intraprendere un viaggio all’interno di un corpo malato, riuscendo a costruire in appena tre minuti un’esperienza perturbante quanto ipnotica. Questo breve viaggio in un’interiorità al negativo, che si conclude con la scoperta di un cancro, rimanda a forti esperienze artistiche del passato: tra tutte, il ciclo delle Craniologie di Ketty La Rocca, in cui l’artista ligure rielaborava con tocco tragico e poetico l’immagine della malattia che la stava progressivamente consumando.
Il cortometraggio di Zanatta è invece tutto costruito su filmati di feste in discoteca registrati a cavallo tra gli anni Novanta e il nuovo millennio. I video in bassa risoluzione dei primi cellulari dotati di fotocamera e di altri dispositivi economici di ripresa vengono sottoposti a un’operazione di rimaneggiamento che ne accentua sfumature eteree e sfasamenti poetici. I colori sbiaditi e i contorni confusi di queste immagini di festa cancellano qualsiasi possibilità individuale: i corpi di questi discotecari si perdono velocemente in un unico grande blob, disegnando sulla scena una massa informe e sfumata che celebra il vuoto e accende la notte.
È una frattura significativa quella realizzata da queste due categorie, non determinata unicamente da una differenza di temi ma anche da una distanza di umori. I lavori presentati nella sezione Metonimie sono tendenzialmente più luminosi e meno inquietanti di quelli che formano la sezione Body art, dove domina invece una dimensione perturbante legata all’esplorazione del sé.
Questa analisi parziale della quarta edizione del Ribalta Experimental Film Festival ci ha dunque permesso di cogliere due tendenze rilevanti del panorama sperimentale contemporaneo che si presentano tra loro in contrasto, ma che al tempo stesso non sembrano rinunciare a ulteriori ibridazioni e riformulazioni. La sensazione generale, in definitiva, è che un festival come il Ribalta ci ponga di fronte a ciò che altrove è escluso, omesso, dimenticato, perso, nascosto. Se quindi ci chiediamo, anche qui, in che direzione sta andando il cinema, non potremo che ritrovarci a intraprendere un cammino tanto oscuro da attraversarlo ad occhi chiusi. Il cinema ribaltato è quello che ci fa brancolare nel buio.