Le intenzioni del Ribalta Experimental Film Festival (REFF) sono particolarmente ambiziose. Voler porre al centro, al limite del palcoscenico, dove tutte le luci si allineano, autori e autrici del cinema sperimentale internazionale, è opera assai ambiziosa. E trovo che sia piuttosto riuscita. Non tanto per la resa, cioè per la qualità – quella, ma come in ogni festival d’altronde, è alquanto eterogenea – quanto più per la capacità di attrarre una tale varietà di registi e registe, che portano dalla loro una grande varietà stilistica, concettuale, di sensibilità. Dico “non tanto per la qualità” perché in ogni caso, per un festival al suo quarto anno di vita, non è facile ricevere una tale risposta. Quello che più importa – perlomeno all’inizio – è l’interesse che porta gli artisti a inviare i propri lavori proprio al Ribalta.
Il REFF può quindi ambire a dar spazio e voce al cinema sperimentale contemporaneo, può contribuire seriamente a delineare un’alternativa, può puntare le luci su un altrove cinematografico, su una nuova generazione che si impone per forme e linguaggi diversi da quelli dell’industria.
Tuttavia, come scriveva Alberto Farassino nel 1977, “dopo averci saltuariamente tagliato l’occhio, il cinema sperimentale pretende di essere guardato da un occhio tagliato, da uno sguardo diviso che ponga fratture e discontinuità […] Ma si tratta di rifiutare il ricatto esclusivistico che il cinema sperimentale ci pone (o con me o contro di me) proprio nel suo stesso interesse. Si tratta di guardare il cinema sperimentale con l’occhio ubiquo di chi si occupa di cinema in generale […] per evitare di capire male […] proprio il cinema sperimentale”.


Per evitare dunque di rendere lo sperimentale un oggetto lontano, mistico o addirittura incomprensibile, la critica che si occupa di tale oggetto ha il dovere di fornire gli strumenti necessari per una sua scoperta più approfondita e più attiva. Il festival, in quanto contenitore di opere, può non avere questo dovere che perciò viene sopperito dalla critica.
I film presi qui in analisi – cioè quelli all’interno delle sezioni Lichtspiel Opus V, Sesto potere e L’occhio, magnifica ossessione – in quanto sperimentazioni, sono soggetti ad errori tecnici, offuscamenti, aberrazioni. La definizione di “cinema sperimentale o d’avanguardia” che dava Jonas Mekas negli anni ’70, come di un cinema dell’esperimento (in termini propriamente scientifici), della prova, sembra essere qui ancora rispettata. La capacità degli artisti consiste poi nel rendere una pratica tali errori.
Il REFF, come molti altri festival, sta contribuendo a constatare quella che sta diventando, da un po’ di anni a questa parte, una tendenza del cinema sperimentale internazionale, ovvero l’uso della pellicola (8 e 16 mm, nello specifico). La pellicola consente evidentemente un rapporto più stretto tra chi gira il film e il corpo stesso del film. Ma non solo. Come nel caso di Triple Loaders (Em Van Loan, 2023) e Half Light (Ryan Marino, 2023) – della sezione Lichtspiel Opus V – gli errori insiti nella pellicola, quali polveri, macchie o altro, sono sfruttati per ragionare sulla percezione, sui limiti naturalistici della realtà e, magari, sulla negazione del naturalismo tout court.


Lo “sporco” lo troviamo, in verità, un po’ in tutta la sezione. Se pensiamo al film The Mulch Spider’s Dream (Karel Doing, 2018), lo sporco anzitutto è nuovamente nella pellicola scaduta. Non è invece tanto nel soggetto in sé, cioè in ciò che viene mostrato, quanto più in ciò che questo rappresenta. Assistiamo ad un fluire di viscere: lo “sporco” qui ha a che fare infatti direttamente col viscerale audio-visivo. Le viscere in cui ci immergiamo, che sembrano quelle di un animale – in una sorta di sogno non-umano – sono anche le viscere della pellicola stessa; le sue interiora scadute che gridano ancora, forse per le reminiscenze di un incubo, lampeggiano una vivacità organica. La pellicola è viva, anche da morta; è viva come il sogno di un ragno.

Invece, di offuscato, annebbiato, c’è bleared eyes of blue glass (Kyujae Park, 2023), di cui qui su Memento si è già parlato in occasione dello scorso Laterale Film Festival. Se in quell’articolo, Mariantonietta Losanno sottolineava l’idea del “movimento perpetuo per eccellenza (quello dell’onda, appunto)”, alla luce del dialogo simbiotico con le altre opere della sezione, potremmo parlare della nebbia – sporcizia del cielo – per eccellenza, ovvero l’individualità (o senso dell’io), qui avvolta da un’oscurità subacquea. Ad esser “sporca” è la vista e non tanto la materia, liquido primordiale che ci riporta al viaggio nella coscienza, ma anche al cinema stesso, alla sua (in)forma.


Questo scorrere di immagini (come del pensiero) immediate, legate fra loro da liquidi e ombre, che contraddistingue bleared eyes of blue glass, lo troviamo in qualche modo anche in Substrat (Patrick Bergeron e Karl Lemieux, 2023) e Flowers #3 (Kissed by the Sun) (Philip Hoffmann, 2023). In questi due film vengono svelate delle immagini – pressoché simili l’una all’altra – che divengono, cioè che si plasmano nel flusso, da sé, con la piacevole apparenza che i registi si siano fatti da parte lasciando libere le immagini di auto-farsi. In Substrat scorgiamo il potenziale del digitale, le immagini fluiscono in altre, tramite loro stesse, tramite cioè una trasformazione che parte dall’immagine stessa, a differenza della “processione di erbe” di Flowers #3 dove le immagini, analogiche, scorrono verticalmente. E torniamo inoltre alla sporcizia. Il suono graffiante e al contempo epico di Substrat, accostato a immagini-strato, che si pongono l’una sopra l’altra, rievocano l’idea di uno sporco incessante, di una materia vuota e piena al contempo, inafferrabile. In Flowers #3 abbiamo nuovamente la pellicola che si aggancia facilmente al concetto di un’immagine sporca, meno limpida; ma oltre questo, la caduta (o l’ascesa?) di mille fiori illustra un’immagine sporca in quanto confusionaria, disordinata e per di più violenta.
I due processi, uno digitale, l’altro analogico, rappresentano bene quello che accennavo sopra: la sperimentazione come pratica, prima ancora che stile. Non che le due opere non riportino un certo gusto “tipicamente” sperimentale; ciò che però qui più mi interessa è far notare come questo cinema si muove oggi, e si muove (non sempre) attraverso la pratica, il processo, al di là che queste siano soluzioni già viste o del tutto innovative.



Il flusso d’immagini si sposa con lo sperimentare analitico e la ricerca formale ed estetica in Test Objects (Sam Drake, 2023) – di cui si è parlato, anche qui, nell’articolo di Mariantonietta Losanno – della sezione L’occhio, magnifica ossessione. Ogni immagine è il tentativo di descrivere una sensazione: la ricerca di un ordine compositivo, di un equilibrio cromatico e sonoro mostrano come vi sia l’intenzione di scoprire gli oggetti che ci circondano, attraversarli, trovando con essi una comunione definitiva. Si crea quindi uno schema di contrapposizione, di tensione dialettica fra “posizioni”: la soggettività empatica dell’occhio-individuo, contenuta, dominata dalla presunta oggettività dell’occhio-cinema.
La ricerca e la s-coperta dell’oggetto in quanto tale – o come proiezione soggettiva – sono processi di un cinema sperimentale non solo come catarsi anti-narrativa, ma anche come rappresentazione della realtà attraverso forme e strutture diverse, dove il senso è ricercato tramite vie dissimili, fino a sfociare propriamente nel non-senso.

Les images qui vont suivre n’ont jamais existé (Noé Grenier, 2022) – sempre in L’occhio, magnifica ossessione – ci introduce ad un’altra capacità del cinema sperimentale – che poi è più una tendenza – ovvero quella di manipolare le immagini d’altri, trovate negli archivi, nelle case, per strada tra i rifiuti… La lunga tradizione del found footage ha già ampiamente dimostrato (non a caso, questo termine “scientifico”) come tale pratica abbia un certo potere di risignificazione della fonte, qualsiasi sia l’obiettivo. Nel film in questione, è possibile ravvisare l’intenzione di svuotare l’oggetto (il film Twister di Jan de Bont, 1996) del suo senso, pur mantenendo il significato simbolico che esso rappresenta (la proiezione dello stesso film in un drive-in, il 22 maggio 1996 venne annullata a causa di un’allerta tornado. Tuttavia, stando a una leggenda metropolitana, gli spettatori, nel bel mezzo di un temporale, guardarono il film fino alla scena cruciale, dove un tornado abbatte un drive-in, radendolo al suolo). Essenzialmente il regista ricrea quella serata al drive-in mai esistita, in un tornado di immagini consequenziali, disarticolate e intermittenti a un tempo. I tre schermi non si estendono, bensì ci accerchiano, ricreando anche qui, come in molti film di queste tre sezioni, un flusso continuo di immagini, con l’intenzione di esserci, qui ed ora, riportando una falsa memoria come frammentazione dell’io, come frammentazione del cinema stesso.


Finendo con sperimentazioni (quasi) in tutto e per tutto digitali, parliamo dell’uruguayano Los Ciervos (Emiliano Grassi, 2023) e del brasiliano Guarda Vieja 3458 timbre 3/6 (Karen Akerman e Miguel Seabra Lopes, 2023) – entrambi nella sezione Sesto potere – film, a livello di sperimentazioni, con intenzioni parecchio distanti.
Los Ciervos è interessante per l’uso che fa del materiale d’archivio, elemento presente-assente, rimasto a lungo perduto nella memoria collettiva e digitale del paese. Il regista paragona queste immagini a ciò che loro stesse hanno trasformato nel tempo, alla loro eredità. Le immagini “antiche” si rivelano quindi un’ombra pesante per le immagini “nuove”. Passato e presente vengono accostati (questa volontà è esplicitata nella scena in cui una donna spazza, mentre dietro di lei, sul muro, è proiettato una sorta di cinegiornale dell’epoca), ma non si fondono mai: anzi, il montaggio dalla piega quasi strutturalista ci mostra parti del corpo di un ora, come a rivendicare una distanza cronologica necessaria (anche se tale scelta rimane forse un po’ troppo “ermetica”), tranne laddove i due personaggi femminili, all’interno dello stesso schermo, sembrano trovarsi davanti a uno specchio della memoria.
Guarda Vieja 3458 timbre 3/6, invece, vede come protagonista una bambina di un anno, figlia della coppia di registi. Un’ombra politica le ricade addosso, mentre tenta di alzarsi e camminare per la prima volta. Persino il video cerca di trovare impedimenti per la missione della pargola.
Seppur l’intenzione politica del film appaia in verità piuttosto debole, ad interessarmi è piuttosto l’uso dualistico che la coppia di autori fa del video, come documentazione e intralcio ad uno dei trionfi infantili.
Entrambi i film hanno in comune lo sguardo inquieto nei confronti della dittatura, chi razionalmente (ri)osservando il passato, chi con preoccupazione osservando il futuro e le nuove generazioni. Questi lavori sudamericani ci propongono perciò una visione di cinema militante moderno, dove la sperimentazione formale si sposa con la battaglia politica e sociale.