Nell’ambito del Ribalta Experimental Film Festival di Vignola uno degli omaggi dedicati a registi di cinema sperimentale e di ricerca va quest’anno a Giuseppe Marcoli. Regista lirico, cominciò la sua attività alla fine degli anni ’80, dopo essere stato assistente di Franco Piavoli in Nostos – Il ritorno (nel quale compare anche come attore nella parte di un marinaio compagno di Ulisse) e in altri film del regista lombardo. Nel contesto della rassegna vengono presentati alcuni suoi film degli anni ’80 e ’90, quando Marcoli era ospite fisso di rassegne importanti dedicate al cinema indipendente, come il Festival di Bellaria e il Rimini cinema.
Il suo lavoro in pellicola 16mm racconta di una pratica lirica, attenta al dettaglio, alla suggestione poetica di immagini spesso contrastate, ombre e silhouette contro cieli e astri; altre volte china su piccoli particolari, immagini che “suonano” poiché coniugate con musiche contemporanee e minimaliste. Il cinema di Marcoli ci mostra come l’immagine possa rappresentare un pensiero, in un cinema che non ha una vocazione alla narrazione tradizionale, quanto piuttosto a una intellettuale e filosofica meditazione. Già Deleuze in L’immagine-tempo. Cinema 2 (1985), aveva sviluppato una acutissima analisi estetica e filosofica del cinema e aveva scoperto la forte somiglianza di intenti esistente tra questo mezzo e la filosofia. Esiste, infatti, una forte correlazione tra cinema e pensiero: la capacità visiva, visibile e allo stesso tempo visuale del cinema, il suo riuscire a mostrare e a far vedere, permette ad esso di (di)svelare nel suo funzionamento i meccanismi propri del pensiero. Deleuze, nel solco delle teorie di Henri Bergson, descrive il cinema e la filosofia come attività analoghe, accomunate dagli stessi intenti creativi: il primo è per antonomasia creatore di immagini, quelle che saranno definite «blocchi di movimento-durata», ed è quindi costruttore iconico; la seconda non è attività contemplativa, ma invenzione di concetti. Il loro incontro non avviene quando l’una si mette a riflettere sull’altro, ma nel momento in cui «ci si accorge che entrambi devono risolvere con i propri strumenti lo stesso problema: ciò che emerge nel cinema è la sua attitudine, indiscutibile quanto imprevista, a rivelare la vita del pensiero, producendo visivamente nuovi concetti».
I film proiettati a Vignola racchiudono alcuni topoi della produzione di Marcoli, come il viaggio in treno (oltre che il viaggio mentale, filosofico, poetico, persino storico) in A-R (1989), l’attenzione alla natura e alle suggestioni che da essa provengono in Ad alzare l’acqua si alza anche la barca (1993), alla “narrazione” (auto)biografica in L’uomo che contava i suoi passi (1991), fino alla speculazione filosofica di La goccia e il vetro (1993), sorta di film saggio in cui l’autore riflette sull’essere e il divenire della natura e della storia attraverso la presenza protagonista dell’acqua. Oggetto di una masterclass dedicata alle scuole ma aperta a tutti, sarà invece il film K, basato su alcuni racconti di Kafka e sviluppato in anni di sperimentazione.
Abbiamo raggiunto Giuseppe Marcoli al telefono, il quale ci ha concesso una lunga intervista riguardo ai suoi inizi, agli incontri e scambi fruttuosi con importanti personalità del cinema indipendente e sperimentale, al suo lavoro di insegnante e di cineasta; ci ha raccontato i suoi interessi, la sua poetica e la sua visione del mondo, forgiata dagli studi in filosofia e dalla vita.
Il suo sguardo attento, empatico, e il linguaggio anti-narrativo, costruito attraverso contiguità semantiche piuttosto che metafore, ci permette di correre su binari non tracciati, di scoprire visioni estetiche e sopravvivenze delle forme, come “voci nel tempo”.
Ci vuole raccontare come ha iniziato il suo lavoro di regista?
Io abito a Desenzano del Garda, a 18 anni, finito il liceo scientifico, volevo fare filosofia oppure lo psicanalista, ma 6 anni di medicina non li avrei sopportati. Un amico mi disse che avrebbero aperto una nuova facoltà a Bologna, il DAMS. Mi invaghii di questa idea e andai a Bologna con mia madre, grande amore della mia vita, sulla 127. Non ero mai stato al cinema, a teatro, quindi non nasco come cineasta. Mi iscrissi al Dams nel ‘72, l’anno dopo che era stato istituito.
Franco Piavoli l’ho conosciuto invece molto dopo, quando andai a Locarno con Silvano Agosti. Feci il suo assistente in Nostos – Il ritorno e in Voci del tempo mi costrinse a fare una ripresa, a scrivere dei numeri sul muro, ma per il resto ha fatto tutto lui. Dopodiché mi sono lanciato, nell’89 ho fatto A-R e tante cose…
Ho fatto l’insegnante per 37 anni, di scuole medie e liceo, ma prima sono stato assistente di Eco per un anno e poi mi sono trasferito a Milano per entrare un po’ nell’ambito universitario. Erano anni tosti, belli, ma era un po’ difficile entrare nella facoltà.
Quindi la sua formazione universitaria ha influenzato il suo percorso artistico, la sua scelta di provare ad utilizzare il mezzo cinematografico.
Sì, certo. Come curriculum istituzionale ho fatto il Dams con una tesi sul Realismo poetico francese di Marcel Carnè. Poi alla Cattolica di Milano ho fatto una tesi su Pinocchio di Luigi Comencini, e poi ho vinto una borsa di studio di sei mesi a Budapest e ho fatto una tesi sul rapporto tra cinema e realtà, quella che si chiamava la Docu-fiction film.
Dopo la sua formazione comincia quindi la sua professione di regista grazie anche agli incontri che ha avuto, accennava ad Agosti a Locarno…
Silvano è un personaggio particolare, io lo chiamo il Socrate del cinema, lui parla molto bene… L’ho visto per strada a Locarno (io andavo per conto mio ai Festival) e vedevo che affiggeva questi piccoli manifesti di un film che presentava, La macchina cinema, dove faceva interviste a Bellocchio, Piavoli, personaggi importanti del cinema… Mi aveva stupito. Poi l’ho conosciuto, mi ha un po’ aiutato, ma io ho sempre fatto tutto da solo. Sono un individualista, però dal punto di vista tecnico, soprattutto nei miei ultimi lavori in elettronica, mi avvalgo dell’aiuto tecnico di Mario, figlio di Franco Piavoli. I primi film li ho però montati io alla moviola, come A-R e L’uomo che contava i suoi passi.
Quindi lei girava in 16mm e si può dire che gestiva tutto in modo anche amatoriale?
Sì sì, amatoriale nel senso che mi ero comprato una macchina Arriflex 16mm, sempre tramite Silvano Agosti, una bella macchina che poi ho prestato anche ad altre persone nell’ambiente… Ho comprato la moviola, ho investito un po’ di soldi in quel settore e sono stato, con i primi cinque film, sempre in concorso al Festival di Bellaria. Insieme a un amico, un filosofo con cui parlavo sempre di calcio e ciclismo, è stata un’esperienza simpatica.
Poi con l’arrivo dell’elettronica, e anche a causa di problemi di salute, ho avuto una specie di rigetto.
Di A-R, per esempio, ho anche la fotocopia del programma di sala di Bellaria dell’89. Volli che si portasse in VHS, perché la difficoltà serve a precisare l’idea (è una frase di Paul Valery) e mi piaceva questa cosa. Certo, la pellicola è un’altra cosa… Tra l’altro per A-R Lorenzo Pellizzari mi chiese “ma tu cos’hai usato?” e io non so ancora che differenza c’è tra il fuoco e la focale. La tecnica è una cosa che si può anche superare. Certo, bisogna fare le cose bene, come fa Mario Piavoli, che mi è molto utile perché è molto preciso sotto questo punto di vista.
Anche il film K l’ho montato io in pellicola. Ha avuto una storia lunga… L’ultima parte, Alberi, è successiva. Per il montaggio mi ha assistito Daniele Puddu, che io chiamo “consulente Kafkiano”.
A proposito di Kafka, guardando i suoi film si nota un forte legame tra cinema e letteratura.
C’è il famoso dilemma se un film deve derivare dalla letteratura, che fra l’altro è un topos di Franco Piavoli, perché il suo cinema deriva da una dimensione non solo narrativa ma proprio verbale… E io pure, certamente. Però io utilizzo molto le didascalie, sono più intellettuale, sono l’Ėjzenštejn e lui è il Dovženko della situazione, tanto per essere modesti.
Quando ho presentato K alla Cattolica, c’era un cattedratico tedesco che ha visto il film e alla fine mi ha detto: “ci sono due tipi di registi, quelli che mostrano e quelli che dimostrano. Lei è di quelli che mostra”, perché io sono antinarrativo, ma ho una narratività particolare, e tutta la dimensione simbolica di Kafka (l’ho verificato anche su testi di Gilles Deleuze), la lettura che se ne dà a scuola, è parziale. Kafka è indexicale, parla di oggetti come se fossero persone, gli oggetti sono persone e le persone sono oggetti. Nel frammento “Undici figli” (in K) – fra l’altro Alberto Grifi voleva premiarlo al Bellaria – faccio vedere questa dimensione indexicale, cioè 11 donne che si assomigliano; quindi, ho preso la parte fisica di Kafka. Lui utilizza i rumori, questo è confermato dal fatto che la simbologia è un tipo di segno traslato, cioè mediato: quando Gregor Samsa si sveglia non è come un insetto, lui è un insetto, quindi è sdoppiato.
Purtroppo, nelle scuole si insegna la storia della filosofia, la storia della rivoluzione… Mi ricordo che con Umberto Eco facemmo un seminario su come era stata trasmessa la Rivoluzione francese, sono stati i documenti ufficiali il problema mediatico enorme. Al di là dell’aneddoto, dal punto di vista cinematografico… Adesso sto facendo delle cose, poi magari ci impiego vent’anni a fare un film o due minuti, sto facendo lavori su Robert Walser, che Kafka considerava proprio maestro, ma è molto più difficile da fare, perché sembra apparentemente così iconico, chiaro, invece è complicato. Scrisse “La passeggiata”, tanti piccoli racconti. Adesso faccio molti videoclip sulla musica punk, dove metto in atto una traslazione intellettuale. Capisco una parola del testo in inglese e dall’emozione che mi dà la musica metto un mio testo.
L’aspetto musicale è molto importante nei suoi film, penso ad A-R con la musica di Philip Glass, o a L’uomo che contava i suoi passi con musiche di Brain Eno, Sakamoto ecc… Che cosa ci può dire su questo?
Ecco ti do una connotazione proustiana: sono seduto esattamente nel posto in cui ho trovato la musica per il film A-R. Avevo già girato del materiale nell’Engadina, tutto preso da questa emozione d’immagini, e stavo pensando a che musica potesse andare bene… Avevo comprato una raccolta di componimenti di Philip Glass, nella quale c’è un pezzo che si chiama Facades, molto bello, d’archi. Ho provato e funzionava perfettamente. Non sempre è così, delle volte parto dalla musica e metto l’immagine… Mi hanno chiesto, in alcuni Festival, se non avessi bisogno di un compositore. Mi piacerebbe avvalermi di un compositore, ma non ho tempo e non ho voglia di litigare: i felici abbinamenti fra musica e cinema sono molto rari… Mi viene in mente il film Aleksandr Nevskij di Sergej Ėjzenštejn, uno dei miei film preferiti. Non sono manierista, però mi piace molto il manierismo in pittura, e Ėjzenštejn è un manierista, lavora molto sulla forma. Con Prokof’ev l’abbinamento fu vicendevole, lavoravano in coppia, ma sempre distanti. Io sono solito paragonare i miei film ai binari di un treno, che corrono paralleli: tra immagine e musica c’è compresenza, complementarietà.
Questo meccanismo è molto interessante ed è presente anche nell’ambito poetico, una suggestione data dalla musica o dall’immagine che poi chiama altre suggestioni. In merito invece alla narrazione, nel film Ad alzare l’acqua si alza anche la barca, troviamo questa componente più narrativa.
Li è molto chiara: ho suddiviso lo spazio – il problema più importante della filosofia della vita è la morte, considerata attraverso il tempo, si muore perché finisce il tempo della vita – citando Goethe, in maniera un po’ tedesca, queste 24 ore in quattro settori, e ho cercato di connotare o, meglio, di denotare, la giornata di una persona qualsiasi. All’inizio si vede Daniele Puddu che si fa la barba, in una dimensione di sospensione del tempo. Il titolo è un detto buddhista, ma non c’entra niente col film, anzi io questo film lo chiamo “Il pianeta azzurro all’incontrario” perché c’è una circolarità che c’è anche lì.
Ghezzi mi disse, sul film sui passi (L’uomo che contava i suoi passi), è un film Reggiano-Lynchiano. Io pensai al Parmigiano reggiano, e invece si riferiva a Godfrey Reggio (creatore della Trilogia qatsi, ndr.), però io non lo avevo visto. Ma io sono più poeta, in L’uomo che contava i suoi passi faccio nascere il mito dal fuoco.
In Ad alzare l’acqua si alza anche la barca c’è una frase in una didascalia che dice: “La natura non ha nocciolo né guscio, ti esamina: tu sei nocciolo o guscio?”.
Sì, l’uomo non guarda la natura ma è la natura che guarda l’uomo. C’è un ribaltamento.
Il suo sguardo è molto attento al dettaglio, soprattutto nei confronti della natura. Mi viene in mente che uno sguardo così potrebbe appartenere ad un bambino o a uno scienziato. E quindi le chiedo, lei si sente più bambino o più scienziato?
Ti rispondo con una frase di Nietzsche, “il filosofo è come un bambino che di fronte all’oceano cerca di raccoglierlo in un cucchiaino”. Questo è lo stupore, ne parlava anche Aristotele, mio grande nemico. C’è questa doppia dimensione dell’ingenuità del bambino e della precisione dello scienziato, perché per mettere un po’ di acqua in un cucchiaino bisogna essere precisi! La tua notazione è perfetta, c’è lo stupore del bambino, ma allo stesso tempo i bambini sono meccanici, sono abitudinari, sono istintivi.
Per esempio, la sequenza dei bambini che giocano con il trenino in K, muovono le mani, c’è il dettaglio della mano che si muove e uno dei bambini dice qualcosa nell’orecchio a un altro (noi non sentiamo cosa si dicono), e poi scappa. Mentre scappa rincorre un treno che arriva nello stesso momento. È un momento molto importante del film. Da un lato c’è istintività ma dall’altro anche una specie di follia. E non importa sapere quello che si sono detti.
Infatti, dal momento che il suo registro è poetico, è più importante la forma, rispetto al contenuto. A proposito, in un’intervista afferma “Io amo il cinema-cinema, anzi per me il cinema è solo in bianco e nero e muto”. Nel suo cinema si nota questo interesse, c’è una suggestione che proviene dal cinema delle origini.
Più che un interesse verso l’origine intesa come ciò che viene prima di qualcos’altro, quindi riprendendo la filosofia e il cattolicesimo – siamo tutti cattolici, cerchiamo tutti il Padre e ci chiediamo cosa c’era all’inizio, il Verbo, la materia informe – io devo dire che questo vizio non l’avevo, credo di più nella forma, come Platone, che non nel principio primo (Aristotele). C’è una componente doppia.
Il discorso sul bianco e nero risponde più alla dimensione di Paul Valery, quindi tecnica, perché non è vero che, come sostengono in molti, se fai vedere una cosa in bianco e nero sembra che sia più vera. È una stupidaggine. Anche quando c’era il Nazismo c’era il bianco e nero e il colore, lo vediamo oggi nel bellissimo film “La zona d’interesse”. Il bianco e nero è una cosa più tecnica, io uso benissimo anche il colore.
Quando feci portare, dalla nipote di Silvano Agosti, le pizze di K a Roma per farle sviluppare, il ragazzo aprì la scatola ed entrò della luce, che si vede sullo schermo come un bordo rosso. In conferenza stampa a Bellaria mi chiesero come avevo fatto ad ottenere questo effetto straniante, kafkiano, e io risposi che avevo fatto una fatica terribile! In realtà è stato un caso, ma andava benissimo. Io adoro il 16mm, ma non entro nel feticismo del colore o del bianco e nero. I grandi autori usano sia uno che l’altro.
Io sono didascalico, volevo fare una tesi su Jean Epstein, regista dell’impressionismo francese, o anche Murnau mi piaceva tanto. C’è questa presenza forte dell’immagine ma anche un uso forte della didascalia. In questo sono un po’ tedesco. Ad esempio, Piavoli ha sempre cercato invece di togliere questa dimensione della didascalia, però nel mio film Ad alzare l’acqua per esempio è fondamentale.
I cartelli scritti a mano mi fanno venire in mente anche la produzione di cinema amatoriale, familiare, dove spesso i cineamatori scrivevano a mano cartelli e didascalie, come vediamo ad esempio anche nei suoi film. Ritrova, nel suo cinema, questa componente amatoriale, magari agli inizi?
Guarda, io ho giocato a calcio fino a 55 anni, mi piace molto, è una passione, e non credo ci sia differenza tra una cosa amatoriale e una professionale, è l’industria che fa queste differenze. Però non bisogna confondere le cose, non tutti i contadini sono Leopardi. Non per fare classifiche, sono su livelli diversi perché è diversa l’intenzione. In fondo l’arte è debolezza, secondo la teoria Platonica. Denuncia la debolezza del poeta di fronte alla realtà.
In A-R ci sono anche immagini d’archivio, risalenti al periodo del Fascismo e non solo, immagini di propaganda. Da dove vengono e come le ha utilizzate?
Io sono convinto che si potrebbe smettere di girare, di scrivere, di fare. C’è già tutto, basta metterlo in una posizione diversa. Il materiale di repertorio non è a livello di documentario; certo, c’è un rimando storico, ma c’è una sollecitazione poetica. Per esempio, il Fascismo è un fatto anche erotico: nel film sul treno (A-R) c’è molto erotismo. È un cinema magmatico il mio.
Si può dire che nel suo cinema ci siano delle Sopravvivenze, per citare Aby Warburg?
Sì, delle corrispondenze, diceva Baudelaire. Io non sono un amante di Dante, anche se è stato il più grande poeta, perché Dante è difficile, ci sono delle allegorie, che comportano una grande intellettualità, una grande conoscenza. Io sono più petrarchesco, più lirico. Se leggi Dante devi leggere le note, invece se leggi Baudelaire, la poesia è più diretta.
C’è sempre un lavoro sulla materia, è indubbio.
La manipolazione però non avviene direttamente sulla materia, non ha mai agito modificando la materia della pellicola o dello strumento di registrazione…
No, ho fatto delle dissolvenze in macchina, ma per gioco.
Si dibatte tanto, dal punto di vista teorico, sulla natura del cinema: è un linguaggio, una lingua… In ogni caso, esso ha una propria grammatica, che cambia da autore ad autore. Qual è l’alfabeto del suo cinema?
Dal punto di vista filosofico sono un nominalista, il mio lavoro, essendo antinarrativo, non è basato sulla logica predicativa del verbo. Sto leggendo delle poesie di Baudelaire; in una, “I ciechi”, lui scrive due volte la parola “cielo”, una volta all’inizio tutta minuscola, e l’altra alla fine con la maiuscola. Quindi certo, c’è una significazione semantica, una grammatica, ma non è uguale per tutti, non è codificata, ed è difficile da trovare.
Il rapporto tra l’essere e l’apparire nel mio cinema si sente, io sono un kantiano, però abbiamo perso la battaglia rispetto all’aristotelismo imperante. È più facile credere che mettere in discussione. Il linguaggio deve passare attraverso il corpo, per questo Pasolini mi piace molto.
Trovo che ci siano delle ricorrenze, dal punto di vista formale, nel suo linguaggio. Ci sono spesso riprese molto contrastate, al tramonto, con silhouette in controluce, oppure ombre di ponti, strutture geometriche, ecc. e mi vengono in mente le avanguardie sovietiche.
Ho regalato proprio l’altro giorno a Piavoli un film di cui mi parlava anche Ghezzi, di Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa, importantissimo anche per la colonna sonora. Lo considero importantissimo perché già allora Vertov si schierava “contro”.
Le avanguardie hanno fatto tutto, non solo nel cinema, negli anni ’20. Sono contrario a catalogare l’arte: per esempio hanno trovato un disegno di uno scafandro di 4000 anni fa, che cos’era? Un extraterrestre, un ubriaco? Effettivamente c’è una corrispondenza, le avanguardie mi piacciono molto. Mi ci riconosco molto. Volevo fare un film su Malevic, dove lui gioca a scacchi con Lisinski, del costruttivismo russo.
A proposito di Festival partecipava a Bellaria, Rimini cinema, vuole raccontarmi qualcosa su questo?
Dall’89 al ’94 fui al Bellaria con i miei film. C’erano Volpi, Morandini, Ghezzi, Piavoli. Mi piaceva molto che non si guardasse il tipo di supporto. Mi son trovato benissimo, c’era di tutto, dalla grande produzione, allo sperimentale. Nel’89 Piavoli in giuria non mi fece vincere, e li ho capito come funzionavano le cose…
Io pensavo che il cinema sperimentale fosse finito e invece…
E invece il cinema di ricerca esiste ancora, con mezzi e strumenti diversi (o sempre uguali) e con la stessa passione che negli anni ’80 muoveva Giuseppe Marcoli e tutta la sua generazione. Lo dimostra un Festival come il Ribalta dove questo omaggio è uno dei tasselli di una ricerca aperta ed empatica nei confronti delle molteplici vie dello sguardo.