“L’onda non è che nel tempo” recita una didascalia nel film Ad alzare l’acqua si alza anche la barca di Giuseppe Marcoli, mostrato al Ribalta Experimental Film Festival 2024. Un concetto che, prendendo le mosse dalla fisica, volge verso la metafisica e persino la filosofia, e che ben si adatta a molti versanti della produzione artistica sperimentale. L’onda del/nel tempo è forse uno degli aspetti più pregnanti della teoria e della pratica cinematografica, un presupposto che è impossibile ignorare, un valore che bisogna ammettere nell’equazione. Non si può pensare all’immagine (in movimento) senza pensare al tempo che è necessario per comprenderla e nel quale essa si scompone.
È solo attraverso il tempo che si può sperimentare, solo nel tempo si può oscillare. L’oscillazione tra immagine mobile e immobile, tra visibile e invisibile, tra reale e surreale è forse uno degli elementi sui quali riflettere per comprendere il lavoro di due maestri del cinema sperimentale e di ricerca come Robert Cahen e Claudio Caldini, ospiti quest’anno del REFF e dedicatari di due omaggi molto sentiti.
I due registi, coinvolti in masterclass con studenti, proiezioni speciali e incontri con il pubblico, vengono omaggiati poiché messaggeri di sguardi e pratiche ricche di impulsi che hanno segnato la storia del cinema sperimentale e della videoarte.
Robert Cahen e il tempo trattenuto.
Robert Cahen, musicista e compositore di formazione, partecipò dal 1970 al 1972 al Gruppo di Ricerca Musicale (GRM) fondato nel 1958 da Pierre Schaeffer, il padre della musica concreta. Dal 1972 al 1976 è stato ricercatore e direttore del laboratorio di video sperimentale del dipartimento di ricerca dell’ORTF (Ufficio francese della radiotelevisione), professione che gli permise, da pioniere, di sperimentare le nuove possibilità visive e sonore offerte dalla tecnica videografica. Pur girando ancora in pellicola (i primi film sono soprattutto fotografici con qualche frammento filmato, si pensi a Karine del 1976), Cahen cominciò ad indagare le nuove possibilità linguistiche della tecnologia video: gli anni ’70 sono stati infatti il decennio in cui è nata la videoarte e i video di Cahen, come quelli della maggior parte dei video artisti che hanno lavorato in questo periodo, sono caratterizzati dalla sperimentazione del mezzo e delle varie tecniche a disposizione. Egli utilizzò in particolare lo Spectron (sintetizzatore di origine inglese, messo a punto da Moukhouse, che produce soprattutto rigature) e l’effetto del rallentamento.
Il decennio successivo, gli anni ’80, vide una generale riscoperta della narrazione, come sostiene Sandra Lischi nel suo testo Il respiro del tempo. Cinema e video di Robert Cahen: “Gli autori passarono dall’attenzione alle «avventure della trama» (intesa qui come tessuto luminoso, puntiforme, plasmabile, dell’immagine elettronica) e alle modalità percettive, dell’osservazione autoreferenziale, allo studio e alla sperimentazione delle nuove forme di racconto consentite dalla tecnologia video. Una tendenza ad una «nuova drammaturgia» che si registra a livello internazionale”. In questa direzione si indirizza uno dei film presentati a Vignola, Juste le temps, del 1983.
Il film, in dialogo con altre proposte del Festival, come A-R di Giuseppe Marcoli per il tema del treno, o Heliographia di Claudio Caldini (che vedremo fra poco), è uno dei video più conosciuti e premiati del regista francese. Per la prima volta nel cinema di Cahen, due attori (un uomo e una donna) occupano la scena, seppure non ci siano né dialoghi né parole. All’interno di uno scompartimento di un treno in movimento è seduta una donna che legge, si sistema i capelli, si addormenta; l’uomo cammina lentamente per il corridoio, poi si siede vicino al finestrino. Le immagini dell’interno del treno si alternano con quelle del paesaggio al di fuori. La matrice narrativa viene tuttavia scalzata dal racconto astratto di un viaggio sospeso tra reale e manipolazione. A Cahen, infatti, interessa mostrare la diversità dello sguardo data dalla distanza, ossia la differente modulazione dell’immagine grazie a un’osservazione prolungata. Le immagini vicine viste dal finestrino di un treno in movimento scappano veloci, mentre quelle lontane possono essere osservate con più calma, scomponendo lo spazio e il tempo in scie luminose. Protagoniste indiscusse divengono le immagini del paesaggio che, elaborate temporalmente mediante il processore di scansione Rutt/Etra (utilizzato dai Vasulka e da Gary Hill) subiscono sovrapposizioni e manipolazioni al fine di creare una composizione astratta, un pa(e)ssaggio che non rispecchia il punto di vista di nessun personaggio ma esiste nel tempo come scia luminosa.
La componente sonora, poi, è di Michel Chion: rumori, suoni del treno, voci di bambini che urlano, rintocco di campane, sospensione del rumore e pause improvvise costituiscono il giusto contraltare all’astrattezza delle forme visive.
Anche Parcelle de ciel (1987), primo video di Cahen sulla danza, sviluppa la tensione alla manipolazione videografica: il video riprende uno spettacolo della coreografa Susan Buirge realizzato da otto ballerini ripresi su una pedana immersa nel buio. Cahen si concentra in particolare sulla resa fantasmatica e incorporea dei corpi, che sembrano perdere consistenza, immersi in una atmosfera liquida e sfumata. Le immagini, trasformate usando rallentamenti e interruzioni, vengono trattate con l’oscilloscopio che trasforma i corpi in onde, tracce e, ancora, scie luminose. L’estetica della smaterializzazione ricorda il precedente lavoro del regista Norman McLaren intitolato Pas de deux (1968) nel quale, in uno sfondo nero, si muove una coppia di ballerini di cui scorgiamo solo i contorni, muoversi in uno spazio senza coordinate come quello creato dal video di Cahen.
Solo (1989) è un altro video di danza. Prodotto per una trasmissione televisiva spagnola (RTVE, El arte del video, quattordici puntate tematiche trasmesse alla televisione sulla storia della videoarte), riprende la coreografia del francese Bernardo Montet ispirata a un brano musicale di Michèle Bokanowski. Si tratta di un assolo eseguito in una piccola arena. Il trattamento delle immagini include un forte rallentamento e reverse contrapposto a riprese a velocità normale, e immagini astratte contrapposte a primissimi piani.
«Io rallento le immagini non per abbellire, ma per far vedere meglio l’invisibile, per trattenere ciò che c’è di migliore. Soggettività di una nozione di tempo buono, di tempo trattenuto» così afferma lo stesso regista, interessato a trattenere qualcosa di sfuggente e, al contempo, rendere sfuggente qualcosa che esiste.
Gli anni ’90 e 2000 vedono Cahen impegnato nella realizzazione di video-installazioni, esposte in importanti musei del mondo, e una intensa sequenza di viaggi in luoghi lontani. L’avvento delle telecamere digitali permette nuove sperimentazioni e facilità di utilizzo, e consente al cineasta di continuare le sue sperimentazioni poetiche fino ad oggi.
Un altro video mostrato al REFF, Blind Song del 2008, testimonia questo interesse per il viaggio e per spaccati di vita lontana. In una strada di Hô Chi Minh, un uomo non vedente suona un tamburello e canta una melodia tradizionale, dopo che lo spettatore è stato avvisato, grazie a una didascalia iniziale, che “The one that looks enters the silence, and through silence enters the image.” Interessato alla fugacità della visione, a una via di mezzo dell’immagine, alla dialettica apparizione-scomparsa, Robert Cahen invita lo spettatore a posizionarsi, a fare proprio uno sguardo, una direzione, per poi perdersi di nuovo nel tempo della visione.
L’ultimo film presentato è l’anteprima di La voix (2023): sulla musica concreta di Michel Chion, La Tentation de saint Antoine (1984), tratta da G. Flaubert e letta da Pierre Schaeffer, il film si rivela come un insieme di associazioni libere di immagini. Esso, come spiega l’autore, «vuole essere terrigno e prossimo alla natura ritrovando la materia offerta in una visione avvolta nella nebbia. Al suono dello sparo, reale nella musica, corrisponde una cesura del discorso e l’immagine, come lo sparo, riscopre la connotazione asiatica della morte. E dal sogno nasce la forma umana, poi un volto che si offre prima di scomparire nel tumulto di un mare immaginario. La terra vista dal cielo, poi il cielo stesso, ci porta lontano, “plus haut toujours” (più in alto ancora)».
E più in alto o più nel profondo ci trasporta la pratica audiovisiva di Robert Cahen, cineasta e artista che, tentando di rallentare la velocità del mondo e indagando il reale attraverso la sua manipolazione formale, permette di scoprire, nel tempo, un altro divenire.
Claudio Caldini e il cinema come trasformazione.
«È così semplice che diventa impossibile da spiegare. Possiamo solo intuire che il cinema può diventare, a volte, in precise condizioni di illuminazione e verità, il più intenso e trasparente degli intermediari tra una persona e il mondo. Claudio Caldini ha saputo dirigere, in tutti i suoi film – astratti, figurativi o strutturali – il suo sguardo verso il centro di questa possibilità autobiografica di trascendenza.» (Pablo Marín)
Claudio Caldini, nato a Buenos Aires nel 1952, anch’egli compositore di musica elettronica, iniziò il suo percorso cinematografico a metà degli anni Settanta, un periodo in cui molti artisti e cineasti porteño (Residents of Buenos Aires, a port city.) stavano adottando il supporto Super 8 per emanciparsi dai vincoli economici, tecnici, stilistici e ideologici imposti dal mondo del cosiddetto cinema professionale. Dal 1970 a oggi Caldini ha realizzato film in Super 8, video e performance di cinema espanso. Nel 1971 ha iniziato i suoi studi presso il Centro Sperimentale dell’Istituto Nazionale di Cinematografia (Buenos Aires) e ha seguito seminari con Werner Nekes (1980) e Werner Schroeter (1983) presso il Goethe-Institut di Buenos Aires. Caldini si è occupato di progettazione e gestione delle luci per il teatro e i concerti rock, è stato curatore di film e video presso il Museo d’Arte Moderna di Buenos Aires (1998 – 2004) e Membro della giuria del Festival Internazionale del Cortometraggio di Oberhausen, Germania (2003).
Negli anni Settanta, un piccolo gruppo di persone ispirate dallo spirito degli happening e interessate alle possibilità offerte dal nuovo formato cinematografico in Super8, leggero e facile dautilizzare, si formò intorno ad alcuni luoghi culturali, con l’obiettivo di condividere tra loro i risultati della propria ricerca visiva. Nel corso degli anni e nonostante, o in reazione, alla crescente oscurità del Paese (attraversato da una successione di governi segnati da un’estrema oppressione morale e politica che sarebbe continuata fino allo scioglimento della giunta militare nel 1983), Claudio Caldini cristallizzerà la sua visione interiore producendo un corpus di opere rigoroso e al contempo personale e filosofico. Sempre in evoluzione, il lavoro di Caldini non è legato a nessun mezzo, tecnica o formato particolare. A partire dagli anni ’90 ha infatti sperimentato con il video analogico e digitale, creando sorprendenti transizioni e ibridazioni tra i diversi media. Inoltre, ha reinventato la sua pratica del Super 8 orientandosi verso performance multiproiezione con improvvisazioni sonore dal vivo.
Una bicicletta, la sua ombra proiettata sulla strada e il canto degli uccelli che risuona tra le foglie: così inizia Heliografía (Remix, 1993-2021), (elio-grafia, ossia scrittura del/col sole) film nel quale Caldini utilizza una scrittura evanescente per catturare barlumi di luce in un paesaggio in movimento. La lentezza liquida delle ombre scomposte in una successione di fragili linee rimanda alla costante necessità del tempo di cui si parlava sopra, del presupposto imprescindibile con il quale avere a che fare. Le forme si dissolvono e i colori si accavallano, sfumandosi, sullo schermo. Si coglie forse l’impercettibile, grazie anche al trasferimento video della pellicola Single-8, terreno fecondo per esplorare i limiti espressivi di entrambi i media.
L’antefatto per lo più realistico o, meglio, mimetico, è presente anche nel film Un Enano en el Jardin (1981), dove inizialmente un’esile pianta si staglia contro un paravento che nasconde una silhouette. Da questo momento, una serie di visioni convulse, di esercizi effettuati dal regista con movimenti estremi della macchina da presa, si combinano con improvvisazioni della danzatrice Alice Bloch, ripresa appunto in un giardino, come allude il titolo (riferito anche al formato Super 8). La qualità futurista da un lato, estremamente cinetica e votata alla compenetrazione tra reale e filmato, e pittorica dall’altro, con uno spiccato gusto estetico, fa di questo piccolo lavoro un esempio di sperimentazione e ricerca formale e poetica.
Anche in Vadi-Samvadi (1981) il presupposto è mimetico: il film inizia con il cineasta seduto a un tavolo, su cui si trovano alcune piante, mentre aziona una piccola macchina, un motore a vapore in miniatura. Il titolo rimanda alla coppia di note predominante nella struttura della forma musicale indiana conosciuta come raga. Il film venne girato due volte in formato super8: la prima nel 1976, la seconda nel 1981. La prima copia è andata perduta durante il viaggio verso una mostra, e quello che vediamo oggi è un attento remake. Non appena il motorino si mette in moto, il ritmo di Vadi-Samvadi viene guidato dall’accelerazione del raga che inizia ad elaborare la sua forma sonora: la struttura del film si sposta così dal soggetto umano alle piante della stanza, iniziando una coreografia vegetale, ripresa con ritmo forsennato tramite zoom avanti e indietro, in modo da suggerire uno stato di trance cinematografica. Tecnica e natura, macchina e piante, immagine e suono si amalgamano, in un’oscillazione costante.
Infine Deadline (2015), dove Caldini dipinge con la luce derivante da luci urbane di strada, presentato al REFF in dialogo con l’anteprima del film Realtà Diminuita di Enrico Bentivoglio.
Si può concludere allora che, per entrambi i cineasti, la pratica sperimentale cinematografica e videoartistica rappresenti un’occasione per pensare, per vedere più lontano o per vedere diversamente il più vicino. La trasformazione del reale, divenga esso una scia luminosa, un segnale elettrico, una sfumatura di colore o un’onda liquida, è il varco da attraversare per comprendere (forse) la realtà.