Spesso, dalla critica degli anni ’70, i fratelli Paolo e Vittorio Taviani sono stati considerati inattuali, fuori (dal) tempo. Questa considerazione derivava secondo alcuni dalla dicotomia tra ciò che si sarebbe dovuto dire e quanto gli autori si sono assunti il compito di esprimere. L’inattualità, però, non è da considerarsi in una accezione negativa, poiché da questa caratteristica deriva la classicità. I film dei Taviani hanno raggiunto sempre più lo status di classici: s’intenda, non monumenti intoccabili, prove autoriali irraggiungibili, piuttosto sublimazioni della realtà attraverso un occhio (o forse quattro?) che la sapesse trasfigurare. «L’inattualità è il doppio del presente» scrisse qualcuno a proposito del loro lavoro, «è, per assurdo, la sua fotografia»[1]. Allora si può pensare che i film dei Taviani presentino un’occasione: rivedere ciò che si è perso in un batter di ciglia, poiché l’arte non può far altro che bloccare il tempo, unicamente dopo averlo trasformato, dipinto, fotografato, compreso, ri-preso.
In un mondo in cui tutto scorre troppo velocemente e nulla assurge più a diventare classico ma si limita alla cronaca e viene subito dopo dimenticato, in Leonora addio (2022) Paolo Taviani – e con lui idealmente il fratello Vittorio che purtroppo non ha potuto partecipare al set di quest’ultimo film a causa della morte – si pone al contempo con una doppia postura; da un lato, in veste di storico, ripercorre il Novecento e lo racconta in frammenti, come se stesse riscrivendo una propria storiografia, un proprio racconto che parte da lontano e che si sente il bisogno di rimettere in circolo, forse per fare i conti con esso; riviverlo, attraverso le immagini cinematografiche e di repertorio, in un momento in cui la morte sembra prevalere, in cui essa è così vicina che la si può quasi toccare, e sorge l’urgenza di mostrare, come testimoni, ciò che si è vissuto, a chi non c’era o a chi l’ha dimenticato.
Dall’altro, incarna un narratore, un uomo di letteratura, forse un cantastorie, ma soprattutto un mettre en scène, capace di collocare il proprio racconto in una cornice definita, ossia un teatro che racchiuda la cultura. È infatti l’immagine di un soffitto di un teatro accompagnato da fragorosi applausi quella che apre e chiude, in una visione ciclica, le vicende di questo film, dedicato in calligrafia al fratello scomparso, ma forse con un intento ancora più alto, quasi civile.
Leonora addio è un puzzle, un insieme di frammenti, di squarci, a volte di macerie, e al contempo è una favola, una sorta di fiaba, tema tanto caro ai due registi che una volta affermarono: «Dall’infanzia a oggi è rimasto in noi vivo il fascino della favola, intesa come scatenamento del fantastico (che è qualcosa di diverso dalla fantasia)». Il loro amore per il racconto, per la figura e le novelle di Pirandello – che ritornano qui dopo altri film della loro lunga carriera ad esse ispirati, come Kaos o Tu ridi – la predilezione per lo spettacolo e, soprattutto, per lo spettacolo della vita, è evidente. In un’altra intervista essi ribadirono a proposito: «Confessiamo un nostro gusto enorme per rappresentarci (un esorcismo contro la propria morte, alla fine). Il godimento che ci dà lo spettacolo è prima di tutto fisiologico.»[2] Ed è proprio lo spettacolo il primo elemento che investe lo spettatore in Leonora Addio, lo spettacolo che si manifesta, nel teatro in cui si svolge la consegna del Nobel a Pirandello nel ’34, attraverso filmati dell’archivio Luce. La voce off di Roberto Herlitzka legge frasi dello scrittore, il quale afferma «Non mi sono mai sentito così solo» mentre lo vediamo ricevere il premio. Il racconto per immagini prosegue poi, per scandire il passaggio dal fascismo alla guerra e al dopoguerra, con frammenti di film molto cari ai fratelli Taviani, come Il sole sorge ancora, Paisà, Un’estate violenta, Il bandito.
Consegna del Premio Nobel a Luigi Pirandello, 1934La devozione per Pirandello porta poi il regista a raccontare una storia particolare, ossia il destino che hanno avuto, dal ’36 in poi, le sue ceneri. Egli voleva essere cremato, avere funerali privati ed essere sepolto ad Agrigento, dove era nato. Tuttavia, Mussolini decise che il drammaturgo premio Nobel dovesse avere funerali solenni, “fascisti”, e che le ceneri dovessero riposare a Roma. Dopo la guerra, un messo da Agrigento ebbe la concessione di riportarne le spoglie in Sicilia. Seguirono però altri funerali pubblici, le ceneri raccolte in un vaso greco a provocare l’imbarazzo della curia. Pirandello arrivò poi nella sua campagna agrigentina dopo altro tempo e infine venne sepolto nel monumento ad egli dedicato.
La seconda parte del film ripropone invece una delle ultime novelle del drammaturgo, Il chiodo. È a questo punto che torna il colore, poiché il fantastico non può essere raccontato in bianco e nero. Il bambino che è costretto a lasciare la Sicilia alla volta dell’America, lasciando la madre a salutarlo con i fazzoletti bianchi attaccati alla cima di ramoscelli (scena che si ripete uguale in un episodio di Kaos), scoprirà proprio nel Nuovo Mondo la sorpresa del dolore, mettendo in pratica, insensatamente e con un gesto inconsapevole e violento, la sofferenza che prova; uccidendo con un chiodo una bambina che non conosceva, voterà la propria vita ad una lunga e commossa riflessione sulla morte e sulle possibilità che essa può spezzare.
Due sono quindi gli elementi fondanti di questo film, che portano poi ad una riflessione profonda: la storia, quella Storia del Novecento vissuta e da rivivere attraverso filmati, immagini originali, ma anche film che l’hanno raccontata. Una storia forse da riscrivere, forse da studiare in veste di storico, per sublimarla in un proprio racconto. In secondo luogo, lo spettacolo, come teatro, drammaturgia, illusione, colore, fantastico, poesia. Da tutto ciò, in ultimo, la morte, filo conduttore dell’opera, elemento con il quale coloro che sopravvivono devono confrontarsi ed esorcizzare. L’opera di Paolo Taviani riconferma più che mai quel coefficiente di classicità, di inattualità inteso come “essere fuori dal tempo”, e di conseguenza quel lirismo che scaturisce da una rappresentazione sicura e al contempo certa di poter sperimentale.
Verrebbe in mente, a proposito di storia, una dicotomia che Taviani sembra incarnare tra la cosiddetta microstoria di Carlo Ginzburg e la storia poetica dell’americano Hayden White. Il regista si pone, in questo suo ultimo film, come un narratore di microstorie, seppure riferite ad un illustre personaggio della cultura: il trasporto delle ceneri sul treno, racchiuse in un vaso antico; il tresette “col morto” che alcuni passeggeri giocano sulla cassa che contiene le spoglie dello scrittore; persino la novella, ripresa da un fatto veramente accaduto, può essere considerata in questo novero. Al contempo, egli è uno storico-poeta, (etimologicamente) un “creatore di storie” che, sulla base dei piccoli e grandi fatti, costruisce un discorso, una enunciazione per immagini. Per lo storico White, la storia non è una operazione oggettiva, ma diventa appunto un discorso, una pratica linguistica, con la funzione di attribuire senso ai fatti; questo forse è il fine ultimo del regista, cercare un senso ai fatti della vita, dei quali anche la morte è parte, e ricostruire il passato attraverso lo spettacolo, le immagini e le parole che l’hanno raccontato. Grazie a questi fattori, il film di Taviani si pone quindi oltre la celebrazione e oltre l’epitaffio, divenendo un manifesto universale.
[1] I Taviani, di Fulvio Accialini e Lucia Coluccelli, Il castoro cinema, La nuova Italia, 1979, p. 17
[2] Su Sotto il segno dello scorpione, a cura di Pascal Bonitzer, Bernard Eisenschitz e Jean Narboni, “Chaiers du Cinéma”, n. 228, 1971, in Ivi, p. 5