UN PICCOLO SPETTACOLO (2005): UNA PRIMIZIA DEL CINEMA DI ALICE ROHRWACHER

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C’è un trapezista che attraversa lo spazio limbico del suo peregrinare, tra il silenzio incorruttibile delle campagne e quello – spezzato da un campanaccio – di un paese cui egli pare così estraneo. È un incontro di civiltà quello che riempie di senso l’incipit de Un piccolo spettacolo (2005), documentario co-diretto da Alice Rohrwacher e Pier Paolo Giarolo; diario di bordo del Circo Soluna – una famiglia di circensi che abita i percorsi della propria maestria – inaugurato da un bianco e nero celebrativo di queste figure fuori da ogni velleità. Poi si sente una voce, che dolcemente rimprovera il piglio sentimentalista della regia. «Tu vuoi fare tutto in bianco e nero, ma che brutto, noi siamo un circo». Allora il colore ritorna e lo sguardo filmico viene ridiscusso; svuotato di ogni idealismo, viene riportato nel mondo (del) reale di una casa-carrozza che, leggera, si sposta sulla più rudimentale delle strade di provincia.

È da subito un cinema dell’attraverso – dal centro Italia fino all’Ungheria – di una soglia ogni volta da varcare e un permesso da sudare: nell’esercizio quotidiano del repertorio che è garante anche dell’abitare. Allora ecco, che i circensi del Soluna potrebbero essere i nuovi comici dell’arte; redivivi artisti dannati e insieme profeti di uno sconosciuto stare al mondo. La vita come uno spettacolo – confessa il papà acrobata Stephan – ma non quello Debordiano per cui «ciò che appare è buono e ciò che è buono appare», piuttosto quell’attimo che scivola dietro al sipario per restare, finiti gli applausi e smontate le gradinate, quando la propria casa a quattro ruote si sposta alla volta di un nuovo pubblico. Sui loro cavalli (inquadrati da dietro, in modo così romantico e poco retorico, quasi a voler omaggiare il maestro Leone), questi circensi senza storia paiono dei banditi in un neo-western che scorrazzano qua e là lungo la frontiera, tra il tempo solitario del viaggio e quello sociale dello spettacolo.

O meglio, Un piccolo spettacolo che vede la genesi di Alice Rohrwacher in veste di autrice e montatrice prima del suo stesso cinema, che firmando una co-regia con Pier Paolo Giarolo, realizza la delicata primizia di un’intera poetica: a cominciare dal topos della provincia sempre intrisa di un grande senso del Sacro. Perché in un paese dove è difficile trovare anche un tabaccaio, il Circo Soluna porta loro qualcosa di familiare, consegnando il rito dello spettacolo profano a una comunità alfabetizzata a un altro rito, quello dell’eucarestia cristiana. E così come nella messa regna l’imperativo tacito dell’offerta libera dei fedeli, anche il circo Soluna costruisce la propria performatività fuori da ogni valore di scambio: nessun biglietto, nessuna contrattualità. Lo spazio della finzione è uno spazio liberato e l’arte, come lo spirito, non sa prestarsi all’indolenza della merce. Un esposto poetico qui accennato, abbozzato ancora in Lazzaro Felice (2018) e concettualizzato a pieno ne La chimera (2023), ultimo atto finora di uno zibaldone di caratteri sempre in cerca di una sottesa redenzione; dai circensi del Soluna, nomadi dall’inconfondibile fame di paesaggio, fino al tombarolo Arthur, diviso tra le cose fatte per gli occhi dell’anima e quelle per gli uomini, passando per la tredicenne Marta in Corpo celeste (2011), che nella deriva calabra spera ostinatamente di conoscere il Sacro.

Forse non è altro che un’opera spirituale quella di Alice Rohrwacher – pur nel suo anticlericale realismo – nel senso di guardare in volto le (proprie) anime; che sia grazie al trucco vivace del circense o alla bellezza antica di una dea etrusca. È sempre il racconto di un viaggio (fisico e metafisico) dove il reale e l’allegorico si muovono all’unisono tra le fiabe della buonanotte lette ai bimbi e gli affanni che invece non fanno dormire; un cinema antropico che crede ancora nell’inventiva di scambiare un’isola per una barca gigante con gli alberi sopra.