Carolee Schneemann è stata un’artista fondamentale per l’arte come per il movimento femminista statunitensi. Nasce in Pennsylvania nel 1939, si trasferisce a New York negli anni ‘60 e con le prime performance comincia la carriera. Seppur diventi celebre con la performance, spesso rivendica la propria natura di pittrice. È sempre negli anni ‘60 – periodo in cui, tra le altre cose, conosce James Tenney, con il quale intraprende una decennale relazione, particolarmente passionale, oltre che una lunga collaborazione artistica – che comincia le sue sperimentazioni con il cinema. Il suo primo lavoro è Meat Joy (1964), performance riportata poi a film. Si comprende immediatamente quale sia il discorso che più interessa all’artista, ovvero quello sulla rappresentazione erotica del corpo, soprattutto della donna.
Quello che va dagli anni ‘60 agli anni ‘70 è un momento storico particolarmente pregno di cambiamenti, sia politici che sociali, riguardanti in parte la donna, in parte un nuovo modo di vivere la sessualità. Così come il movimento delle donne prende sempre più posto all’interno dei dibattiti pubblici statunitensi, anche le artiste si occupano di sviscerare a fondo la questione femminile.
Se Barbara Rubin nel ‘63 dirige Christmas on Earth, rapsodia sessuale, ode innocente all’amore libero, Anne Severson nel ‘70 monta clinicamente circa 38 close-up di vulve in Near the Big Chakra e Barbara Hammer nel ‘74 dirige Dyketactics, uno dei primi cortometraggi – dopo Holding (1971) di Coni Beeson – con soggetto esplicitamente lesbico, Carolee Schneemann tra il ‘64 e il ‘67 gira il film Fuses.
Il film di Schneemann si inserisce dunque perfettamente – e in anticipo per molti aspetti – in una tendenza del cinema sperimentale marcatamente femminista. Della durata di circa 25 minuti, girato con una Bolex 16mm, Fuses mette in scena un appassionato rapporto sessuale fra la regista e James Tenney. Sul “set” sono presenti soltanto i due amanti, la cinepresa e il gatto Kitch, senza alcun operatore o assistente; un nudo mostrarsi quotidiano, come fosse una performance fatta per loro stessi.
Fino alla seconda metà del Novecento la rappresentazione erotica del corpo femminile nel cinema è moralmente e politicamente insufficiente; il corpo della donna viene reso oggetto dallo sguardo dominante dell’uomo, sintomatico del ruolo che questa ha nella società. D’altra parte, la critica femminista sostiene come «…il corpo della donna, nel modo in cui compare sulla scena sociale è già “altro da sé”. È essenzialmente forza lavoro produttrice di figli, di lavoro domestico, di piacere per l’uomo» (Lea Melandri, L’infamia originaria, L’Erba voglio, Milano, 1977). Laura Mulvey, nel suo articolo Visual Pleasure and Narrative Cinema (1975), accusa l’industria hollywoodiana di aver “sfruttato” tutti i piaceri possibili offerti dal cinema, fra questi la scopofilia (voyerismo). Per Mulvey esistono due modi per entrare in rapporto diretto con la rappresentazione erotica cinematografica: «The first, scopophilic, arises from pleasure in using another person as an object of sexual stimulation through sight. The second, developed through narcissism and the constitution of the ego, comes from identification with the image seen».
Identica, solamente più volgare e meno velata rispetto a quella a Hollywood, la situazione nel cinema erotico e pornografico. Malgrado la presenza di personaggi femminili, questi film sono destinati a un pubblico esclusivamente maschile. Il corpo femminile rimane oggetto desiderato dalla mente maschile, dove l’uomo, indottrinato dal sistema patriarcale, è indotto alla performance attiva e così la donna ad una passività anti-performativa per sé e, in fondo, soltanto per l’uomo. Ma a differenza dell’industria hollywoodiana, quella nascente del porno, o del cinema erotico, negli anni ‘50 e ‘60 non produce film per la massa, bensì per una cerchia di pubblico che è quasi una nicchia. Hollywood ha responsabilità ben maggiori. Il così ben radicato dominio maschile nelle più alte strutture dell’industria ha concesso l’interiorizzazione e l’accettazione di una specifica visione oggettificante ed eroticizzante del corpo femminile. La cultura di massa non prevede un’educazione sessualmente paritaria, rispettosa e anzitutto consapevole delle capacità e potenzialità del corpo, in particolar modo quello della donna. Non è un caso che Carolee Schneeman critichi aspramente il ruolo che la pornografia ha avuto nella concezione che le donne hanno del proprio corpo:
«A depiction of woman’s pleasure, authentic pleasure, created by herself of her lived experience is rare. In pornography, the pleasure is when the man comes all over her face, or her pussy is getting licked to the point where either she is going to be raw for the next week, or she already came, and we missed it. Because female orgasm is mysterious. There is still this dichotomous evidence – or reporting – on the difference between clitoral and vaginal orgasm. Those are crucial issues for me; experiencing two kinds of vividly different orgasms can place me in another kind of heterosexual closet among women who don’t know what I’m talking about. I insist on the separateness, the distinctiveness, the variousness of clitoral and vaginal orgasm» (Kate Haug, C. Schneemann, An Interview with Carolee Schneemann, in «Wide Angle», vol. 20 no. 1, 1998).
In molte, nell’ambito dei movimenti femministi, ci tengono in questo periodo a ribadire una separazione netta tra orgasmo clitorideo e vaginale: il primo, sinonimo di presa di coscienza femminile e soprattutto di scoperta del reale piacere individuale; il secondo, sinonimo di subordinazione alla maternità e al piacere maschile. Come d’altronde scrive fulgidamente Carla Lonzi, «l’erotismo puro, provenendo dallo stato di coscienza, libera nell’essere umano la capacità di diventare individuo, mentre nella donna, lasciata alla sensazione e all’estasi dell’unisono, è stato sottratto il polo carnale che, insieme a quello etico, le avrebbe dato il senso della completezza che porta allo scatto creativo» (Carla Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale in Sputiamo su Hegel e altri scritti, La Tartaruga, Milano, 2023). Ed è proprio questo “scatto creativo” che molte cineaste, fra cui Carolee Schneemann, hanno desiderio di rappresentare, attraverso una purificazione dell’immagine erotica dalla pesante ombra patriarcale e la messa in scena di un nuovo rapporto, fluidamente egualitario. Schneemann s’inserisce perciò in un genere cinematografico esclusivamente maschile e maschilista per destrutturarlo dall’interno, per ristabilire le dinamiche fra i corpi, per donare un’individualità a quei corpi e non definirli più soltanto come oggetti sessuali sui quali il pubblico deve proiettare le proprie fantasie.
Eppure, nonostante abbia tutte le caratteristiche di un film porno, Schneemann ci tiene a definire Fuses come un’opera antipornografica. È vero che proprio lo “scatto creativo” della regista, la sua consapevolezza artistica, rende l’opera ovviamente diversa, per ambizione anzitutto, da qualsiasi altro film “semplicemente” pornografico. Tuttavia, la valutazione qualitativa che Schneemann fa della pornografia è del tutto subordinata alla gestione fallocentrica di tale industria, non al genere in sé. La pornografia, in quanto esplicitazione dell’erotismo e anche, in parte, annullamento di un certo enigma che può portare con sé l’erotico, è stato e può essere ancora sfruttato con finalità artistiche. Del resto, questo è ciò che ha fatto la stessa Schneemann con Fuses.
Pare non vi siano precedenti all’opera dell’artista statunitense – oltre ai film sopra citati, realizzati in quegli anni – o meglio: precedenti di un film che mostra esplicitamente un rapporto eterosessuale, senza terze figure dietro la camera e così potente su un piano visivo come emotivo, pare non ce ne siano. Ma ciò che è maggiormente rilevante è il riscontro che Fuses ha nell’ambiente underground e in particolar modo in quello erotico: «Mulvey talked to me about the rupture Fuses made in pornography – how important Fuses was as an erotic vision. It was going to change the whole argument and discussion of filmic representation of sexuality».
Il film si apre con dei titoli veramente significativi:
Schneemann rimarca in questo modo l’amatorialità del lavoro e l’intimità dell’ambiente in cui è stato prodotto. Inoltre, dà un peso non indifferente a Kitch il gatto, che spesso la critica ha letto come un vero e proprio personaggio. È l’artista stessa a suggerirci il ruolo che ha all’interno di Fuses: «The cat Kitch watches with complete unrestrained interest. The cat becomes the filmic eye, a metapresence inviting the viewers». Di fatto l’animale assume – come, se vogliamo, anche in Cat’s Cradle (1959) di Brakhage – un doppio senso: è simbolo di quotidianità e stabilità, di casa; poi, si aggiunge come ulteriore punto di vista, assieme a quello della camera e talvolta a quello dei due amanti. La regia è di Carolee Schneemann, ma la cinepresa è tenuta da entrambi, in base a chi inquadra chi; anche Tenney ha, in un certo senso, un potere “registico”: si può perciò parlare di quattro tipi di sguardo (dove prevale necessariamente quello dell’autrice, ma non va sottovalutato il valore che ha lo sguardo occasionale del compagno).
Altra cosa che appare sin da subito è una pellicola particolarmente rovinata. Schneemann l’ha infatti appositamente danneggiata, restituendo una sensazione di materia, che nel film è la carne dei corpi, attraverso i segni sulla pellicola, in un processo importante tanto quanto ogni altro elemento strutturante del film. La sperimentazione sulla pellicola, come ricerca di una maggiore tattilità nell’opera cinematografica è tipica del cinema sperimentale e, in quel momento, soprattutto dell’opera di Stan Brakhage. La scomposizione materiale della pellicola nel cinema sperimentale alimenta l’intenzione di creare una sempre più frammentata narrazione e di rinunciare a una sua linearità tipicamente commerciale. Frammentarietà che, come suggerisce Gene Youngblood, aiuta a focalizzare il pubblico sull’esperienza sessuale, nella quale gli stessi corpi divengono frammenti all’interno dello spazio (Gene Youngblood, Expanded Cinema). A Schneemann non serve una linearità narrativa per raccontare qualcosa che in fondo non è lineare finanche all’infuori del contesto artistico; la rottura degli schemi serve ad esprimere un ardore erotico difficilmente razionalizzabile, una realtà intima e personale che, proprio per ciò, necessita di una “personalizzazione” degli schemi.
Il film comincia subito con delle interessanti giustapposizioni di immagini, come quella fra la ripresa di una fellatio, dinamica, dai colori caldi e la ripresa di una finestra in penombra, pacata e dai toni più freddi. Anche qui Schneemann propone un poetico accostamento fra due tipologie di quotidianità, dilatando il tempo – o meglio, frammentandolo – alternando spesso staticità con dinamismo e inoltre accostando il sesso alla natura, a ribadire la primordialità e una propria concezione di ciclicità dell’atto.
Il rapporto paritario fra uomo e donna è messo in atto nella misura in cui con paritario s’intende messa in pratica di ogni potenzialità sessuale da parte di entrambi, e dunque, in ottica cinematografica, attraverso il montaggio. A seguire, vengono mostrate inquadrature della vulva dell’artista, del pene di Tenney e immagini in cui i corpi dei due amanti si fondono delicatamente; immagini di cunnilingus, le quali non sono affatto solite mostrarsi in un film, e immagini di fellatio. L’intenzione è quella di mostrare un rapporto eterosessuale paritario, rompendo con una tradizione fallocentrica, che vuole il corpo della donna – e il suo piacere – subordinato a quello dell’uomo. Per cui l’orgasmo di Schneemann verso la fine del film è un atto catartico di femminismo senza precedenti nel cinema. Tuttavia, la visione femminista sulla celebrazione dei genitali femminili è, negli anni ’60-’70, piuttosto divisa: tra chi sostiene che la celebrazione vaginale rimarchi maggiormente una differenziazione ideologica fra maschile e femminile e chi invece è certa che tale processo possa restituire un’identità sessuale alla donna. In ogni caso questa divisione “interna” genera chiaramente delle critiche, talvolta furibonde, nei confronti di Fuses e dell’autrice. Persino certi uomini criticano il film poiché non eccitati, o per l’assenza di una trama costruita e prevedibile, soprattutto durante la proiezione a Cannes, dove un gruppo di persone distrugge i sedili con dei taglierini. Nonostante ciò, la critica e l’ambiente underground accoglie bene il film di Schneemann. Tra gli altri, Jonas Mekas ne parla nel suo Movie Journal, in un articolo sul The Village Voice, come «certainly the most beautiful film of the year» (certo, senza mai dedicarsi in un vero articolo, come invece fa Gene Youngblood).
Il ritmo del film segue quello dell’amplesso, talvolta con tentennamenti o improvvise accelerazioni indotti da brevi zoom o dalle righe e macchie sulla pellicola. Delle volte si ha addirittura l’impressione di una sospensione, di un rallentamento della scena, del momento sensuale e delicato o al contrario più passionale. In questi casi, come ad esempio nelle scene dove i due amanti si abbracciano e si baciano, carezzandosi a vicenda, o nei momenti in cui l’una è in una sorta di attesa dell’altro, a gambe aperte, languida e seducente, la carica erotica è molto alta. Si può dire forse che nei momenti in cui i personaggi sono isolati si raggiunge un erotismo molto particolare, come se si fosse finiti in una stanza, da soli con questi, e un lieve senso d’imbarazzo assalisse chi osserva. Le luci, inoltre, che spesso virano su toni caldi, certamente ribadiscono l’ambiente sicuro, ma al contempo eccitante, lussurioso, consapevole ma ben poco ingenuo. Lo spazio in cui si sviluppa il film è quello domestico – anche qui a rimarcare sia l’intimità che la sicurezza – un luogo perlopiù ignoto al pubblico (vediamo soprattutto il letto dei due amanti), tranne per quei brevi scorci sulla libreria, sul comò o sulla finestra; ma vi è anche uno spazio esterno, fatto di piante, siepi, specchi d’acqua, spiagge (persino un paio di frame in cui Tenney guida la macchina): questi appaiono però più come luoghi onirici che attinenti al medesimo piano (reale) in cui si svolgono le scene di interno.
La pellicola, bruciata, scolorita, tranciata, si conclude con Schneemann in una serie di riprese dove sale la spiaggia correndo dal mare e dove scende tornando in acqua, come fosse appena uscita, o ancora immersa, in un “orgasmo oceanico”. Tutto il film è un grande liquido, flusso joyciano d’immagini erotiche, di messa in discussione del fallocentrismo e di elogio al piacere più profondo e completo della donna. Se al film viene criticata una presenza quasi volgare di pura fisicità esplicita, non si comprende che in verità esso trascende la materia per addentrarsi nella coscienza dell’autrice; Schneemann giunge alla propria liberazione come individuo, oltre che come immagine erotica priva di incursioni patriarcali, a cominciare dallo “scatto creativo”, indice di una finale completezza.
Fuses diviene iconico per molte cineaste e cineasti del secondo Novecento; allo stesso tempo passa immeritatamente in secondo piano con estrema facilità. Se si parla di eredità diretta, è difficile dire quanto il film abbia inciso nella coscienza politico-artistica delle generazioni successive. Certamente è bene ridimensionare il suo raggio d’azione al cinema sperimentale e d’autore (Hollywood è una macchina che va per conto proprio). Ciò che si può dire con maggiore certezza è che, all’infuori del contesto cinematografico, il dibattito riguardante la rappresentazione del corpo femminile nell’arte e di un desiderio sessuale concepito nell’ambito dell’uguaglianza è andato sempre più scemando, rimanendo perciò un problema ancora in sospeso. Schneemann ha avuto il coraggio d’essere radicale e, in un certo senso, persino dogmatica nella sua personale rappresentazione del sesso, in un contesto sociale di certo più repressivo di quello che viviamo oggi. Ad una domanda riguardo cosa noi dobbiamo a Fuses e alla sua autrice, Schneemann risponde:
«You owe me the vulva. You owe me bestiality. You owe me the love of the presence of the cat as a powerful companionate energy. You owe me heterosexual pleasure and the depiction of that pleasure. And you owe me 30 years of lost work that’s never been seen. That’s what you all owe me» (C. Schneemann, Alexandra Juhasz, The Words and the Worlds, «Another Gaze. A feminist film journal»).