“Io non faccio documentari. I documentari fanno schifo.”
Caveh Zahedi
Quali implicazioni comporta filmare la propria vita, e quella di chi ci sta attorno, senza freni inibitori? Quali sono gli effetti sulla percezione del reale, sulla sua rappresentazione, sul valore emotivo della memoria e del ricordo? Dove sta il limite tra verità e finzione?
Caveh Zahedi, regista americano e docente di cinema, porta oggi la pratica del cinema del reale a un livello differente, operando una frammentazione degli elementi cardine di forma e contenuto. La forma è minimale fin dall’esordio, A Little Stiff (1991), in cui Zahedi mette in scena una sua personale storia d’amore non corrisposto coinvolgendo la diretta interessata come co-protagonista, in un gioco metanarrativo con un montaggio debitore del Jarmusch di Permanent Vacation e Stranger than Paradise. I contenuti si evolvono, entrando sempre più nell’intimità di Zahedi. Ne sono esempio I Don’t Hate Las Vegas Anymore (1994) e In the Bathtub of the World (2001). Nel primo, intraprende un viaggio verso Las Vegas con il padre, reo di averlo trascurato durante l’infanzia, e il fratellastro. Coinvolge il padre in nome di una mancata emotività; il fratellastro, con i soldi. Montaggio frammentario, troupe improvvisata ed errori tecnici diventano strumenti di un cinema sperimentale creativo, spontaneista e imprevedibile. A un certo punto, in evidente difficoltà nel rendere la narrazione avvincente, Zahedi costringe con l’inganno i due malcapitati ad assumere ecstasy con lo scopo di rendere più profonde ed emotive le conversazioni tra loro.
In In the Bathtub of the World, Zahedi riprende con un’handycam un anno intero della sua esistenza, scegliendo poi quali clip inserire nel film, in un diario audiovisivo stralunato. Quello che sembra un semplice esperimento di un Wiseman ingiallito diventa un’epopea tra successi, fallimenti, crisi di panico e l’esasperazione della moglie Mandy davanti a una telecamera che, più che uno strumento utile a immortalare, sembra trasformarsi in un’arma da fuoco puntata sulle persone che fanno parte della vita di Zahedi.
E ancora, Tripping with Caveh (2004 – in corso), esperimento seriale in cui il regista assume sostanze stupefacenti in compagnia di ospiti più o meno famosi, intavolando conversazioni esilaranti e spesso inconcludenti; I am a Sex Addict (2006), sulle conseguenze della sua dipendenza dal sesso; fino all’ultimo The Show about the Show (2015 – in corso), disponibile su YouTube e Kickstarter, in cui ogni episodio è il racconto di come è stato girato quello precedente, partendo da un pilota dove Zahedi racconta e rappresenta l’idea stessa di fare una serie in questa modalità. Il risultato? La disperazione di figli, amanti e amici, coinvolti nella ripetizione di scene già avvenute nella vita reale; fino alla separazione dalla moglie, ormai insofferente verso le pretese artistiche del marito, e all’emarginazione del regista.
Zahedi diventa così un Dostojevski dell’underground americano, fuori da ogni logica produttiva e di mercato, sempre sull’orlo della bancarotta, martire della sua stessa pratica, amante di essa ma allo stesso tempo sua prima vittima. Intellettuale stimolante, anarchico della peggior specie, caso unico in un cinema del reale spesso unidimensionale e prevedibile, è un autore che nelle sue immagini, poi memorie, raccoglie sprazzi di vita, testimonianze di una militanza cinematografica contro tutto e tutti, persino i suoi affetti. Perché, semplicemente, se ne frega. Se ne frega così tanto da non farci capire se quello che dice e fa è vero, quasi tradendo il principio etico di sapere se quello che vediamo è realtà o finzione. In questo è politico, coraggioso, controcorrente, militante irriducibile della propria arte.
Allora quali di queste rappresentazioni sono reali e quali ricordi possono essere considerati attendibili? La grandezza di Zahedi sta proprio nel frantumare e mettere in discussione il concetto di verità. Se davanti a un Mekas o un Minervini, un Alpert, il primo Redaelli o il già (stra)citato Wiseman, assistiamo a opere testimoni di fenomeni umani reali e riscontrabili (per quanto manipolate da posizionamento della camera e montaggio), nel caso di Zahedi, invece, non siamo mai certi se ciò che è rappresentato può essere valutato e fruito secondo quei canoni morali di patto tra autore e spettatore applicati alla pratica documentaristica o al cinema del reale. Non ci si meraviglierebbe, insomma, se domani Zahedi dichiarasse che la sua intera produzione è stata un falso, scritta a tavolino. Allo stesso modo non stupirebbe sentirlo annunciare, una settimana dopo, un nuovo film in cui racconterà come ha deciso di prendersi gioco di noi facendoci credere che è stato tutto finto quando, in realtà, era tutto vero.