L’ANONIMATO AUTOBIOGRAFICO DI MAZZOLA A BARI: UN’INTERVISTA – PARTE II

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Quando ti ritiri passa dal tabacchino e prendi un pacchetto di sigarette. Anzi, prendine due. Quell’altro dev’essere… (nonna)

Così recita un ricordo, per natura troncato dall’oblio o dalla reticenza nel dire, o per abitudine di complicità e comprensione domestica. La frase, scelta dal cineasta barese Ignazio Fabio Mazzola come slogan per la serata di proiezioni svoltasi martedì 26 dicembre 2023 a Bari, presso Alimentare Libertà, mostra già il principale sottotesto di questa programmazione e anche di buona parte del corpus delle sue opere video, ovvero la (più o meno) volontaria assenza, il paradossale anonimato autobiografico di uno sguardo e di parole comuni che si trasformano poi in poesia.

Abbiamo già trattato e cercato di analizzare in precedenza alcune opere filmiche del regista, notando la presenza di alcune vie ermeneutiche, di coppie di termini utili per attribuire un possibile senso interpretativo alla congerie, ad un primo sguardo imprendibile, di immagini e sfumature della sua produzione. Si ricorderà come, nella nostra precedente disamina, l’ipotesi di partenza prevedesse già l’assenza di un autore, fatto che consente all’io registico di rimanere quasi anonimo a favore della sperimentazione di una pluralità di formati, stili e discorsi. 

Oltre all’assenza tuttavia, già si ipotizzava l’esistenza di una parte maggiormente privata e viscerale, fortemente autobiografica, legata ad alcune figure familiari, come lo zio Pino, il padre Giacomo e, come visto nell’incipit, la nonna.

Si cercherà qui di riprendere le fila del discorso proprio in merito alla proiezione avvenuta a Bari, in quanto ci sembra che il programma segua un processo logico e poetico che parte dal personale (in quanto persona fisica) e giunge alla smaterializzazione, in nome proprio di quel poetico autobiografismo anonimo. Per far ciò, Mazzola stesso ci guiderà nel suo mondo grazie ad una corposa intervista che ci ha concesso e che riportiamo poco sotto.

La programmazione ha visto la proiezione di tre cortometraggi, intitolati Natale Nazista (2012), Piano Pi_no (2014), G (2022), preceduti da LT (2014). «Il tema dell’evento», ci dice il regista, «è appunto quello dell’assenza, registrata e indagata attraverso una doppia lente. La prima disamina avviene attraverso il corpo dell’autore, visibile fin dalle prime immagini, in un percorso di dissolvenza programmata fino alla conclusiva dissoluzione nelle acque del lago di San Giuliano, vicino Matera. In ultimo, l’assenza diventa elemento costante, rappresentata lungo la selezione da tre persone a me legate da differenti gradi di parentela, filmate o evocate attraverso quei luoghi coinvolti nel ricordo.»

Di seguito l’intervista all’autore.

La serata che hai organizzato prevedeva un percorso di visioni molto coerente, tre tuoi corti – più un extra – che vanno dal 2011 al 2022, nei quali si assiste ad un progressivo movimento di scarto. Partendo dal primo, controverso, Natale Nazista, ci vuoi raccontare come è nata l’idea del film e perché hai deciso di mettere in mostra te stesso davanti alla macchina da presa in modo così esplicito?

Natale Nazista nasce da un’invettiva ricevuta da mia nonna a pochi giorni dalla vigilia: “Il Natale lo deve passare qui, insieme a noi. E deve anche ridere!” Da qui l’idea di un nazismo all’acqua di rose, caratterizzato da un’estetica povera e degenere. In tutto questo l’urgenza di mostrare un corpo imperfetto, definito da prodotti industriali trangugiati di pomeriggio sotto una luce al neon, tra l’odore di acetone, il fumo di sigaretta e la voce di Carlo Conti. La mia presenza davanti all’obiettivo avvalora la trasmissione di un’esperienza privata, come senso è rapportabile a quello di un racconto orale. Un impianto voyeuristico consegnato allo spettatore, dove la messa in scena del dolore diventa gioco da tavolo-schermo, il cui scopo è arrivare alla mezzanotte con la morte del dittatore casalingo, tra brindisi e botti.

Il film si pone come iniziale epifania grottesca del corpo, non in quanto singolo o persona, ma come portatore di simboli e di nostalgie incarnate che divengono miti da abbattere, anche attraverso la forma filmica. Sembra che la smaterializzazione delle immagini, decisamente underground e persino punk, il ritmo sincopato intervallato da sonate e melodie nostalgiche, il violento bianco e nero e le sarcastiche sequenze di mise en scene che realizzi, contribuiscano a formare nello spettatore un senso di disgusto e di decostruzione e al contempo di riflessione sulle conseguenze della nostalgia dei simboli nazisti. Ci puoi dire qualcosa in più su questo?

Il nazismo è nel corpo del protagonista, nelle sue smorfie, nelle scene tagliate a colpi di accetta, nel saliscendi emozionale della colonna sonora, nella bassa risoluzione dell’immagine. Il risultato è riottoso quanto la maglia con la svastica indossata da Sid Vicious o come la croce di ferro al collo di Ian “Lemmy” Kilmister. Lo spettatore per tutto il film resta lungo i bordi, senza una spiegazione, quasi in attesa di una rivelazione, ma nulla verrà consegnato ai suoi occhi se non una dubbia strenna natalizia.

C’è in questo film, come in altri, il tema della memoria come fardello e peso, come reperto di un passato complesso; oggetto d’indagine che viene poi trasformato in qualcos’altro, nell’osceno etimologico (“fuori dalla scena”), quindi qualcosa di mancante, sfuggente, repellente. Pensi che nel tuo film ci sia questa idea del rifiuto della memoria, della rovina come reperto riscoperto e poi annientato?

La memoria come fonte inesauribile d’immagini. Penso alla trasformazione di una pietra che giunge a noi dopo un lento e continuo modellamento operato dall’acqua e dal vento attraverso il tempo. Troveremo sempre qualcosa in superficie, la rimozione di un reperto garantirà solo un nuovo passaggio di testimone ma non eliminerà del tutto le tracce di una presenza passata, anche solo la sua vibrazione resterà percepibile nell’aria.

Del secondo film della selezione, Piano Pi_no, avevamo già trattato precedentemente. In esso tu segui, in modo all’apparenza più distaccato, i movimenti di pensiero e di azione di tuo zio Pino, accumulatore di oggetti, custode della memoria materiale collettiva; in questo caso, l’accumulo confuso di materiali forse inutili diviene metafora di uno sguardo rivolto al ricordo collettivo che tu, da autore che tenta di divenire anonimo, sembri guardare con una certa distanza, pur essendone partecipe. Ti poni quindi sulla soglia, all’ascolto e alla contemplazione, e cosa avverti di fronte a te? Quanta memoria e quanta assenza percepisci?

In Piano Pi_no, per la prima volta, rimuovo la mia figura davanti alla macchina da presa. Attraverso l’abitazione di mio zio, situata all’interno di un locale e in cima a una collina artificiale composta dai materiali più disparati, l’esperienza è diventata più immersiva e maggiormente articolato il confronto con la memoria. Il film, visto oggi, con quasi dieci anni alle spalle, appare più sgangherato, come uno di quei “ferri vecchi” di Pino. Spesso i dettagli catturano la mia attenzione, forse sono un pretesto per spostare la ricerca un po’ più in là, ma senza alcun dubbio il momento dell’incontro, con una persona o cosa qualsiasi, rappresenta il vertice di questo percorso. “L’incontro è sacro”, direbbe Piero Ciampi.

Il processo di progressiva disgregazione e perdita si sublima nel tuo film più poetico e dolente, G. Come già si diceva, il film è il tentativo lirico di recuperare il filo di un discorso lasciato a metà dalla perdita: il figlio che torna in un luogo caro per sé e per il padre scomparso, il lago di San Giuliano in Basilicata, di cui noi spettatori vediamo solo l’increspatura delle acque verdi, in una lunga inquadratura che lievemente cambia seguendo il leggero moto dell’acqua. La tua indagine si pone qui come momento sospeso di contemplazione e riflessione, di pensiero necessariamente personale e autobiografico, ma anche valevole di immedesimazione collettiva. Trovi ci sia un parallelismo tra l’assenza di “quelli che vanno” e la perdita di “quelli che restano”, per citare i titoli di alcune opere di Umberto Boccioni? Come si pone un autore che vuole scomparire di fronte alla scomparsa degli altri?

Esiste un confine tra “quelli che vanno” e “quelli che restano”, tale limite può essere esplorato in ogni sua parte, fino a comprendere lo spazio fisico circostante, ma solo a patto di fare i conti con una nuova consapevolezza di sé. La materia è il nodo centrale della questione: siamo disposti a metterla in crisi fino a ridurla a una serie di filamenti luminosi? I riferimenti alla pittura oppure ai disturbi di trasmissione, legati a vecchi apparecchi tubocatodici, provengono da esperienze passate che rientrano in gioco solo in un secondo momento. La mia posizione è paragonabile a quella di un autore che sperimenta l’idea di tradimento autosabotando la propria cifra stilistica.

Infine, citiamo anche il film che hai scelto come sorpresa extra, LT, di cui avevamo già parlato. Questo piccolo film è in parte dissimile dagli altri tuoi lavori, prima di tutto perché si pone nel genere del found footage, ossia di film realizzati grazie al ritrovamento, alla digitalizzazione e alla manipolazione di materiali pellicolari, in questo caso un home movie (nel più veritiero senso della parola, in quanto si tratta di un filmato girato, in parte, in un contesto casalingo e familiare) e una veduta di paesaggio. L’intero film è pervaso dall’assenza: prima, passa in rassegna l’interno di una casa – quella della tua famiglia? – soffermandosi su oggetti che riflettono la mancanza, come un letto rifatto o un orologio a pendolo; poi si apre sul mare e scruta l’orizzonte vuoto, per poi concludersi in una inquadratura “di scarto” della mano dell’operatore. La vicinanza umana che questo piccolo dettaglio suscita riscatta per un momento il doloroso sentimento di perdita e di vuoto, confermando la difficoltà del distacco. Vuoi raccontarci qualcosa sulle origini di questo filmato e su come sei intervenuto su di esso?

Gli interni mostrati nella prima parte del film provengono dalla casa dei miei nonni paterni, in alcune riprese nella sala da pranzo s’intravede il mobile dove ho recuperato le pellicole Super 8. La scelta di escludere dalle scene selezionate una o più figure umane ha reso gli spazi e gli oggetti unici testimoni di una comunicazione con un mondo animico. Ma l’assenza non riguarda solo la figura umana: LT, Natale Nazista, Piano Pi_no e G parlano anche di architettura e della sua dissoluzione, ogni film ci consegna un dialogo, intimo e serrato, tra lo spazio e il suo fruitore. Un confronto che probabilmente si rinnoverà a fine di quest’anno con le riprese del mio primo lungometraggio.

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I giovani sono entità incomprese. Non capite, complesse, labirintiche. Sono alieni provenienti da un universo altro, che piombati sulla Terra, si guardano intorno spaesati. Sono curiosi, eppure spaventati. Hanno voglia di vivere. Ma hanno paura.