«Ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso». Così scrive Fernando Pessoa ne Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares (1982), un insieme di «frammenti, tutto frammenti» e confessioni, una sorta di Zibaldone esistenziale che si configura come diario dell’anima. Il protagonista narra, attraverso un indagare ansioso e tormentato, le idiosincrasie del subconscio che determinano i modi di rapportarsi degli uomini con il mondo esterno e con la realtà sensibile.
Prendiamo Pessoa come punto di partenza poiché rappresenta un riferimento importante, a cui torneremo, per comprendere l’opera del regista Ignazio Fabio Mazzola: classe 1980, egli vive e lavora a Bari, dove ha studiato architettura al Politecnico. Interessato alla pittura e alla fotografia, praticata già in modo amatoriale dal padre Giacomo, la sua produzione artistica prevede l’utilizzo del video come medium di registrazione e la sperimentazione come cifra stilistica. I suoi film hanno durate variabili, da pochi secondi a venti minuti circa, rimanendo quindi sempre nel corto e cortissimo metraggio. Proprio la durata è il primo elemento d’interesse del suo lavoro: la maggior parte dei film prodotti finora sono talmente brevi da lasciare spiazzati; lo spettatore assiste ad una visione quasi indecifrabile e a volte impercettibile. Ciò vale soprattutto per alcune opere come ad esempio T (2017, 32″), S MMM (2020, 30″), MSSM (2021, 42″), solo per citarne alcune.
Già da questi titoli così sintetici e consonantici, una prima impressione di smarrimento coglie l’osservatore e lo conduce in luoghi misteriosi. Chi non è nuovo alle sperimentazioni audiovisive, a partire dalle Avanguardie novecentesche fino alle nuove forme artistiche contemporanee, forse non si sorprenderà di fronte a immagini veloci, sovrimpressioni, sfocature, assenza di sonoro, segni grafici e (quasi) totale mancanza di mimesi e di una canonica “rappresentazione” di un soggetto/oggetto. Eppure, anche per gli addetti ai lavori o semplicemente per un occhio allenato, questi brevissimi film di Mazzola rappresentano una sorta di sfida, poiché difficilmente categorizzabili.
In realtà, tutto il corpus delle opere del regista barese sembra, ad una prima impressione, asserire l’assenza di un autore, sembra cioè seguire e mettere in pratica un unico credo: «ognuno di noi è più di uno, è molti». Qui Pessoa ci torna utile, e forse la sua idea ha permeato il lavoro del nostro regista; infatti, i film brevissimi rappresentano solo una delle manifestazioni dell’io registico di Mazzola, un io che in realtà sembra voler rimanere anonimo, per consentire la sperimentazione di una pluralità di formati, di stili e di discorsi.
Come sempre però, la prima impressione non basta. Se si prosegue nella visione e si va più a fondo nel ragionamento, si scopre che esiste una parte maggiormente privata e viscerale, fortemente autobiografica (non è da escludere che anche nei brevi film ci sia, si vedrà poco oltre). Già nel film Piano Pi_no (2014, 14’20”) comincia a essere mostrata una parte della sua famiglia, lo zio Pino; “filmato mentre compie le sue piccole imprese quotidiane” ci dice lo stesso Mazzola, il quale assume una doppia posizione: da un lato uno sguardo affettuoso di nipote che riprende lo zio nel suo “habitat”, che assiste ai suoi racconti e alla sua memoria, incarnata negli oggetti che lo circondano; dall’altro, perseguendo l’anonimato, assume una postura neutra e ironica (nel senso di bonariamente distaccata), non giudicante, nei confronti di un uomo che vive in modo non convenzionale, collezionando oggetti dalla strada e accumulandoli in un “museo” alternativo.
Altro lavoro che si immette in questa sezione più esplicitamente autobiografica è LT (2018, 3’10”), nel quale vediamo scorrere sullo schermo frammenti di classici filmini di famiglia, home movies anche nel soggetto (viene infatti inizialmente scandagliato l’arredamento di una casa); poi un paesaggio marittimo siciliano ed infine una ripresa che solitamente sarebbe valutata come scarto, ossia l’obiettivo quasi totalmente oscurato dalla mano di chi riprende, mentre sta camminando. Questa immagine assume qui un forte valore intimo e personale, memoriale. Addirittura, non vediamo il volto, non scorgiamo l’espressione probabilmente felice del parente che si gode una vacanza, come solitamente avviene nei filmati familiari.
Vediamo invece la mano, o meglio la pelle fuori fuoco, come se quella mano non reggesse in effetti la cinepresa ma fosse a contatto diretto con un noi (o un parente di Fabio) bambino, che guarda da sotto in su il proprio familiare.
Interessantissimo, a questo proposito, è cominciare ad indagare le motivazioni dietro i titoli telegrafici di Mazzola. In una recente intervista egli afferma che l’idea partì con il suo primo film Piano Pi_no, “dove c’è la sottrazione di un elemento che viene meno. Inizialmente” dice, “ho pensato a una sorta di archivio come gli armadi metallici che si trovavano una volta negli uffici. Da questa idea di archivio e immediatezza sono venuti fuori questi titoli che sono anche un gioco come per il film LT che sta per Linea di terra, ma anche come Limite“. Ѐ forse esso il limite dalla memoria? O forse del contatto impossibile con qualcuno che non c’è più; è una crepa tra passato e presente, una soglia che può trasformarsi in un lago invalicabile.
L’immagine poco calzante del “lago invalicabile” è in realtà scelta appositamente per passare ad un altro film, l’ultimo, a mio parere, di questa serie. Il film si intitola G (2022, 18’41”), è stato presentato alla 58a edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro nel giugno scorso e si inserisce perfettamente come sintesi delle due linee che per ora sono emerse, ossia la sperimentazione da un lato, nella quale l’autore cerca di scomparire nell’anonimato, e dall’altro il forte dato autobiografico che permea e si infiltra carsico fra i segnali del video. G sta per Giacomo, il padre fotoamatore, faro nella vita di Fabio, colui che a volte trasformava la casa in un laboratorio di sviluppo fotografico, o che creava sculture di cartoncino in salotto.
G, però, non c’è più e per recuperare il filo del discorso lasciato a metà, il figlio torna in un luogo caro ad entrambi, il lago di San Giuliano in Basilicata, di cui noi spettatori vediamo solo le acque verdi. L’apertura è eccezionale e aggiunge un tassello al puzzle che stiamo cercando di comporre. I primi secondi sono un flusso di segni, sulle stesse tonalità delle acque del lago che vedremo poco dopo e per tutto il film, ma ricordano qualcos’altro, ossia una serie di quadri di Umberto Boccioni chiamata Gli stati d’animo (1911). Questo trittico (Gli addii, Quelli che vanno, Quelli che restano) descrive le sensazioni che si provano quando una persona cara parte per un viaggio, rappresentando i sentimenti di chi va e di chi resta.
Queste opere sono perfetti esempi della volontà dell’artista di trascendere le regole della rappresentazione, non più basata sulla divisione dello spazio, ma su quella del tempo. Ritrovando simili “pennellate” video nel film, capiamo come l’altra passione del regista, la pittura, si configuri qui come un medium, uno strumento per comunicare qualcosa di impercettibile e di liminale, come in realtà tutto il film è.
Come nella pittura, anche nel film riscopriamo il tempo, un tempo che sembra scorrere infinito in queste acque chete, dove ogni lieve cambiamento di luce porta nuove sfumature nel verde placido. Questo è il tempo della meditazione e della contemplazione. Il tempo del dialogo interiore e della ricerca densa e necessariamente spirituale.
Il figlio e autore sembra qui porre la sua videocamera MiniDV su un treppiedi e lasciare fluire il tempo. Ricorda gli spettri di “quelli che restano”, fluttuanti in un flusso verdognolo di addii e di sofferenze. Al contempo, sembra alla ricerca di un segnale: le acque del lago sembrano formare un disturbo di ricezione, che fa eco alla difficoltà o impossibilità della ricezione di segnale proveniente da un’altra dimensione.
Da tutto ciò scaturisce un ulteriore filone di analisi del lavoro di Mazzola, che si intreccia e sovrappone con quanto detto finora. Ritengo di poter utilizzare un’altra coppia di termini, procedendo nell’analisi di un lavoro così contemporaneo e complesso.
La prima coppia, anonimato/autobiografia, era legata al senso di pluralità di stili e formati, ai “molti” sguardi che coabitano nella sperimentazione visiva e visuale del regista, e ci è stata utile per chiarire la postura che egli assume nei confronti del proprio lavoro, quale tipo di sguardo utilizza, qual è la sua mano.
La seconda coppia di termini è percezione/contemplazione, in questo caso riferita alla posizione dello spettatore, che può comprendere (e forse comprende) anche l’autore stesso. Questa polarità funge da tentativo di classificazione di qualcosa che volutamente sfugge alla classificazione, come ci sembra suggerire l’autore stesso, tentando di scomparire dietro alla videocamera. Tuttavia, è necessaria per capire come noi spettatori possiamo porci nei confronti di questo corpus.
La diversa postura assunta dallo spettatore deriva ed è conseguenza delle scelte stilistiche del regista; i film brevissimi, le visioni riguardanti l’architettura (altro tema ovviamente fondamentale nel lavoro del regista-architetto) sono, come afferma egli stesso, frammenti, dettagli, sfumature, attimi. Se Pessoa racconta di come un uomo si rapporta ad altri uomini, di quali sono i modi e le azioni messe in atto, Mazzola rappresenta l’incontro fugace, la folgorazione, la conoscenza non tanto delle persone, quanto soprattutto dell’architettura. Crea un proprio modo di rapportarsi alle forme immobili, con uno sguardo, per contrasto, dinamicissimo, sfocato, lontano dalla fissità, al fine di restituire una percezione fenomenica che ognuno di noi può sperimentare.
La staticità e le forme geometriche dei palazzi e dei monumenti costruiti dall’uomo diventano il suo principale interlocutore e oggetto d’interesse. In film come T (2017), M (2017), 69 (2021, 1’05”) o anche MSSM (2021, 43″) emerge la percezione, una visione brevissima che rimane imbrigliata nella nostra retina come qualcosa di estremamente mobile e imprendibile. La realtà che viene filmata è immobile, statica per antonomasia ma, attraverso la percezione dei sensi, siamo in grado di instaurare con essa un rapporto che va oltre lo sguardo codificato.
Ancora, il regista diventa “anonimo” quando rappresenta uno sguardo collettivo. La sua mano scompare, o meglio resiste nella manipolazione del b/n, nel movimento della videocamera, nella sfocatura, ma non c’è nello sguardo, che fa invece eco a quello che tutti noi potremmo avere di un monumento, da non esperti in materia, magari mentre passeggiamo con gli occhi all’insù, scorgendo le file di finestre e gli angoli dei sottotetti.
L’altro polo, della contemplazione, è riferito invece al lato più autobiografico che abbiamo visto poco sopra. Quando Fabio si concede tempo, espresso in un minutaggio aumentato e in uno stile piano, con lunghe inquadrature fisse, allora entra e fa entrare noi spettatori in un mondo diverso, spiritualmente elevato, emotivamente pregno: dallo zio Pino, al limite invalicabile dei filmini di famiglia, fino al padre G scomparso, assistiamo ad un trattamento del tempo e dello spazio significativamente diverso, tale da farci penetrare nel suo animo, in un autobiografismo essenzialmente privato.
È quindi possibile sintetizzare queste polarità, puramente strumentali, in una sorta di quadrato magico, con ai vertici percezione/contemplazione/pubblico/privato, e un intreccio di legami e di interrelazioni.
La percezione riflette il collettivo, ciò che il pubblico può percepire dalla velocità di forme architettoniche in movimento; la contemplazione manifesta il privato, l’autobiografismo, ma al contempo apre alla collettività permettendo anche allo spettatore esterno di entrare in tempi e spazi dilatati e dialogici. Inoltre, anche nei “film della percezione” troviamo il privato, poiché essi trattano di argomenti cari all’autore, come l’architettura o la fotografia. Tout se tient.
A tal proposito, lungi dall’esaustività, citiamo alcuni altri lavori che si pongono come sintesi di queste polarità, come a (2019, 3’07”), film suddiviso in tre capitoli che mostra fotografie scattate dal padre Giacomo, con accompagnamento jazz e un altro aggancio alla pittura con l’inquadratura video disturbata dell’opera Montagne di Mario Sironi;
F (2017, 3’20”), dove le immagini di una strada e dei passanti vengono trasfigurate dallo sguardo annebbiato e traballante della videocamera, il cui occhio si apre e chiude continuamente, montando “in camera” le fugaci immagini; non essendo in grado di mettere a fuoco nessun dettaglio, esso ci riporta alla percezione immediata del reale.
Infine (TA) (2021, 1’09”), primo approfondimento sull’opera dell’architetto Antonio Fanigliulo, anch’esso realizzato con l’utilizzo di fotografie e della voce dello stesso – al quale seguirà un altro film non ancora proiettato, intitolato 40.537___ 17.437__ (2022).
Come si nota, emerge un ulteriore aspetto, quello del ritratto. Dallo zio, passando per alcuni maestri dell’architettura, come Fanigliulo o Maurizio Sacripanti (nei film P del 2019, S MMM, 69 e MSSM già incontrati), o della pittura, come Sironi in a, il richiamo a Boccioni in G e quello a Capogrossi sempre in S MMM, fino al ritratto impossibile di chi non c’è più, ritratto che si aggrappa alle increspature delle acque di un lago.
La riflessione di Ignazio Fabio Mazzola sulla percezione dei frammenti e dei dettagli architettonici, sulle arti visive e su varie tipologie di sperimentazioni visuali, ed infine sulla contemplazione autobiografica di tempi e spazi incommensurabili, fa di questo regista un caso particolare nel panorama delle nuove forme d’espressione, in un continuo processo di sintesi tra pubblico e privato, tra collettività e vita.