Cosa significa attraversare il dolore soffocato di un lutto indiretto quando si vive ancora nel mondo ovattato ma vigile dell’infanzia? Come superare le malinconie altrui e proprie che sfiorano come una brezza, come una carezza della mano di una nonna sul proprio viso bambino? Con quali strumenti emotivi avvicinarsi al dolore della perdita e al profumo che rimane sugli oggetti della persona che non c’è più?
Queste sono alcune delle ardue e forse irrisolvibili domande che Céline Sciamma sembra porsi e alle quali tenta di dare una risposta fuori dal tempo nel suo film Petite Maman.
È sentimento sempre più comune nel cinema contemporaneo fare i conti con un passato privato e al contempo pubblico e universale. Ne sono esempi, all’apparenza estranei o tangenti al cinema di finzione in cui l’opera di Sciamma si colloca, la produzione sempre più ricca e stratificata e l’uso ormai esibito di filmati familiari, i cosiddetti home movies racchiusi in piccole bobine di pellicola in formati ridotti, ritrovati nei cassetti come reperti di una archeologia emotiva che ha raccolto il nostro passato e nutre oggi il nostro presente. I filmini girati dagli individui del secolo scorso rappresentano una pratica che si può dire senza tempo, situata nella quotidianità di ogni presente. Il padre di famiglia era solito riprendere i figli e la moglie nelle ricorrenze felici, come compleanni, feste in famiglia, oppure cerimonie matrimoniali e ogni evento degno di essere ricordato. Lo sguardo, solitamente maschile, e la necessità di imprimere un volto, un gesto, il sorriso di un figlio sulla pellicola, con l’intento di porre un freno alla cascata di attimi che andrebbero perduti nel tempo, si ritrova nel film di Sciamma ribaltato (cambiato di genere) e abbassato di statura.
Lo sguardo, infatti, è quello di una bambina di otto anni, oltre che figlia e nipote, anche medium, mezzo per attraversare e forse fermare il tempo. La piccola Nelly, che porta il nome della nonna appena scomparsa, diviene soggetto e tramite di una ricerca di significato attraverso il tempo del lutto che la giovane madre, Marion, sta attraversando. La casa della nonna, i cassetti e gli armadi che vengono svuotati nel presente, si ritrovano riempiti e vissuti in un presente ulteriore, altro perché passato, non visto e vissuto, ma solamente raccontato dalle parole. Nei cassetti non ci sono bobine, ma giochi d’infanzia che fanno intristire, e attraverso i quali la piccola Nelly è in grado di muoversi e spostarsi nel tempo, ridisegnando uno spazio, quello del passato e dell’immaginazione, nel quale forse è possibile risolvere il dolore.
Giocando con una vecchia pallina, infatti, la bambina-medium trova al di là dello specchio, come una piccola Alice nel paese delle meraviglie, una sua immagine riflessa, un’altra bambina della sua stessa età, che le somiglia indelebilmente. Il rispecchiamento svela un legame inscindibile come quello tra madre e figlia, e l’amicizia tra pari, impossibile nella realtà, ma fattiva nella fantasia e nell’emotività, aiuta a metabolizzare la distanza e al contempo rimargina una ferita inferta dalla biologia. Il tempo reale dell’immaginazione si trasforma in un luogo magico, nel quale passato e futuro divengono volti gemelli di una stessa medaglia.
Se, nei filmati familiari lo sguardo prettamente maschile catturava dall’alto i figli e i loro giochi per impedire l’azione dell’oblio provocata del tempo, nel film di Sciamma, lo sguardo, esclusivamente femminile, bambino, forse non più del tutto puro poiché già scalfito da tristezze non proprie, dà senso e detta il passo alla ricerca del proprio e altrui passato, in un percorso che traballa sulla soglia del tempo.