«Va’ alla tua prima pianta e là osserva attentamente come scorre l’acqua a partire da questo punto. La pioggia ha dovuto trasportare le sementi lontano. Segui i rigagnoli che l’acqua ha scavato, così conoscerai la direzione dello scorrimento. Cerca allora la pianta che, in questa direzione, si trova più lontano dalla tua. Tutte quelle che crescono fra queste due ti appartengono. Più tardi […] potrai accrescere il tuo territorio». Con questa citazione tratta dal memoir Gli insegnamenti di Don Juan. Una via Yaqui alla conoscenza, libro in cui lo scrittore peruviano Carlos Castaneda racconta il proprio percorso iniziatico attraverso gli insegnamenti sciamanici di uno stregone conosciuto in Messico nel 1960, Gilles Deleuze e Félix Guattari intendono descrivere in Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980) un’idea di scienza nomade, in contrasto con l’accezione «legale» stabilita dalla storia, che risemantizzi il concetto di spazio in una prospettiva localizzata ma non delimitata. Sostengono, dunque, la possibilità di uno spazio in costante divenire, in cui le figure siano considerate solo in funzione delle affezioni che le modificano: attraverso la metafora del fiume in movimento, il cui vorticoso incedere mette in relazione per la prima volta il flusso con oggetti solidi, istituendo così una realtà altra frutto della combinazione tra gli elementi, la postura esistenziale “turbolenta” che i due studiosi mirano a fornire si realizza negli e dagli incontri accidentali delle varie singolarità.
Pertanto, essere vortice in uno spazio metamorfico significa sancire l’impossibilità di codificare una volta per tutte i rapporti, dal momento che il nomadismo si configura come modo deterritorializzante di abitare i luoghi, dove l’orientamento e la direzione sono sempre suscettibili di cambiamento: «il nomade forma il deserto non meno di quanto il deserto formi lui». Non esistono punti intermedi, ma tratti di percorso che si cancellano e si spostano lungo il tragitto. C’è, dunque, un solo tipo di velocità per il nomade, il movimento turbinante, che non implica necessariamente il viaggio, piuttosto una vertigine d’equilibrio.
Per questa ragione, la fuga inconfessabile da Dakar verso Parigi di Mory e Anta, i due giovani protagonisti del film del 1973 Touki Bouki di Djibril Diop Mambéty, si presenta come la sintesi di una tensione tra «corse folli e catatonie immobili» all’interno di uno spazio cittadino sospeso tra l’eredità coloniale e i miti collettivi. La dinamica del film, che si sottrae tanto alla tentazione di farsi documento etnologico quanto alla pura finzione, è proprio in questa poetica del “tra”, in grado di fornire una via di fuga da una realtà quotidiana dal carattere tattile e dal ritmo sonoro, molto più che visivo.
L’opera inizia con una mandria di buoi diretti al macello: la scena del loro abbattimento è mostrata in maniera esplicita, mentre il tappeto sonoro dalle suggestioni psichedeliche conferisce alle immagini, che nel corso del film torneranno ciclicamente per pochi frame, un fascino ipnotico. Questa forma di “cine-stesia”, in cui i piani sensoriali vengono costantemente sollecitati grazie anche al ricorso frequente al montaggio alternato (come a voler strappare i sentimenti dal piano dell’interiorità e dare loro una nuova cittadinanza nel dominio dell’esteriorità proiettata), è per il regista un atto liberatorio, che consente di mettere al centro dello schermo storie ai margini più che di marginalità. Sono ai margini, per esempio, i discorsi sulla percezione della prossimità/lontananza del sogno europeo per chi abita il villaggio: una donna, in una delle scene iniziali, si lamenta con un’amica di non avere notizie del figlio dalla Francia, confessando come da quel luogo lontano non giunga mai niente di buono, come dimostra il rientro in patria di tanti giovani «con le loro mogli bianche che portano malattie»; Mory, il protagonista del film, dopo aver proposto alla fidanzata Anta di prendere all’indomani un battello per fuggire come clandestini, immagina il suo arrivo a Parigi come l’occasione per fare le conoscenze giuste e allontanarsi così da una realtà che non gli consente di realizzarsi, ribadendo l’opposizione culturale tra la sua comunità d’origine e lo sguardo colonizzante del Paese in cui intende trasferirsi. Il protagonista fa esperienza di essere qui e altrove, viaggia in sella della sua inseparabile moto, modificata con delle corna di bue nella parte davanti, come un guerriero solitario sempre in fuga, tuttavia incapace di spostarsi davvero.
Touki Bouki è, dunque, la storia di una falsa partenza, è «il viaggio della iena». Questo è il significato letterale del titolo del film, che gioca con l’immaginario archetipico delle favole africane, in cui si ritiene tale animale particolarmente astuto nel procacciarsi il cibo nonostante le insidie della savana. Appare chiaro che si tratta di un racconto che ha al centro un antieroe destinato ad un’inquieta celerità di movimenti per raggiungere la vera consapevolezza di sé, attraverso il ripensamento costante della sua esistenza sospesa tra l’abbandono e il tradimento. Il nomadismo di Mory è, infatti, innanzitutto interiore, poiché il suo viaggio vorticoso si realizza nei suoi pensieri, e i luoghi del film nient’altro sono che punti di passaggio di un rito di iniziazione che al suo termine non prevede epifanie né alcuna conquista dell’equilibrio: la partenza, legata tanto al coming of age dei due protagonisti quanto alla loro decisione irremovibile di andarsene per il mondo, comporta il rifiuto proprio di quel mondo.
«Paris, Paris, Paris, c’est sur la terre un coin de paradis», cantato da Joséphine Baker, è il ritornello che scandisce i preparativi per il viaggio, un canto delle sirene che coinvolge i due giovani al punto da spingerli alla ricerca di soldi attraverso piccoli furti; è una traccia sonora che si intreccia e alterna con i canti tribali di festa della comunità che gioisce vedendoli vestiti con abiti alla moda tipicamente europei.
La parola evidenzia la posizione egemonica della ricca borghesia francese nei confronti della realtà senegalese, descritta con toni sprezzanti da coloro che rivendicano una presunta superiorità culturale: «non c’è niente da vedere a Dakar, è tutto arido e di una vuotezza intellettuale! L’arte africana è uno scherzo dei giornalisti per vendere giornali».
Il trattato di nomadologia di Deleuze e Guattari consente, dunque, di considerare la «velocità di deterritorializzazione dell’affetto», in grado di ridefinire gli spazi esistenziali come campi perpetui d’interazione, senza più limiti tra interiorità ed esteriorità, tra privato e politico, tra miti collettivi colonizzati e miti egemonici colonizzanti.
Il cinema, arte delle trasmutazioni, consegna al piano della percezione sensoriale la misura irregolare della vita, con un metodo che si basa su una nuova capacità di affrontare un problema in base agli accidenti che lo condizionano o lo risolvono. In una sua dichiarazione il regista ha affermato: «Sono cresciuto a Colobane, dove c’era un cinema all’aperto chiamato ABC. Eravamo molto giovani, avevamo otto anni, e non ci consentivano di uscire la sera perché il quartiere era pericoloso. Nonostante questo, scappavamo di casa e andavamo al cinema. Dato che non avevamo i soldi per il biglietto, ascoltavamo i film dall’esterno». Queste parole, testimonianza di una condizione di necessità, lasciano intendere un’idea di cinema come superamento di un ostacolo, dove la pro-iezione nel suo affermarsi si configura come immagine-in-movimento di un vortice (Wynchank A., Djibril Diop Mambéty ou le voyage du voyant, Ivry-Sur-Seine, Éditions A3, 2003).
Nel film lo spazio e il tempo si avvolgono su loro stessi – scorrono come flashback irregolari le immagini iniziali di Touki Bouki, in cui il protagonista si dedicava ai buoi o si recava al mare con la fidanzata sognando il futuro – e risucchiano Mory nelle contraddizioni del suo piano inconcludente: mentre è con Anta sulla nave che li avrebbe dovuti condurre in Francia, decide improvvisamente di scendere poco prima della partenza e di iniziare una corsa disperata verso la città, dove scopre che la sua moto è stata rubata e finita distrutta in un incidente. La ragazza, nel frattempo, inizia il suo viaggio.
Il perenne movimento interiore continua ad agitare Mory, ora che le sue chimere di un altrove lo inchiodano lì dov’è.