ATHINA RACHEL TSANGARI, THE CAPSULE: EDUCAZIONE CANINA

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La talpa è un animale che scava gallerie sottoterra,

In cerca del sole, a volte la strada lo porta in superficie.

 Quando vede il sole, resta cieco.

da El Topo (1970), di Alejandro Jodorowsky

L’opera di Joseph Kosuth, uno dei massimi esponenti dell’arte concettuale, intitolata Una e tre sedie, realizzata nel 1965 ed esposta presso il Museum of Modern Art (MoMa) di New York, problematizza la relazione semantica tra linguaggio, immagine e referente, riflettendo sulle incongruenze interpretative tra concetto e sua rappresentazione. L’installazione si compone, infatti, di una sedia, di una foto della stessa, che rispetta le reali proporzioni dell’oggetto, e di un pannello che propone una definizione di “sedia” fornita dal dizionario. L’intento di questo lavoro è suscitare una riflessione sull’«arte dopo la filosofia», al fine di comprendere di cosa sia costituito il significato dei segni e come questi si relazionino ai fenomeni extra-linguistici. Quale delle tre rappresentazioni della sedia è la più reale? La definizione che consente di accedere fattualmente al dominio semantico della sedia o la sua componente materica irriducibilmente tridimensionale? O ancora la tecnica imperitura della fotografia che la custodisce? La disposizione simbolica nello spazio dei tre elementi esprime la pienezza della comunicazione attiva delle forme artistiche in relazione tra di loro.  

Non appare peregrino, allora, estendere la sfida concettuale di Joseph Kosuth a The Capsule di Athina Rachel Tsangari, un’opera dalla forma ibrida tra mediometraggio e arte visiva, in concorso nel 2012 al Toronto Film Festival: attraverso la spastica corporeità dei suoi protagonisti, la regista si focalizza sulla regressione ferina dell’essere umano quando è calato in contesti sociali inumani, partendo da una prospettiva estetica che interroghi il suo manifestarsi disforico. Qual è il significato dei segni che determinano l’idea stessa di corpo? Trasgredire alla sua ineluttabilità materiale è un tentativo d’evasione sia linguistico che performativo, che inevitabilmente richiede un ripensamento delle categorie di animale e animalità.

Già nel precedente Attenberg la peste dell’incomunicabilità si abbatteva su figure incapaci di provare empatia, le cui dinamiche relazionali seguivano due direttrici culturali, l’imitazione di modelli inattendibili e l’annientamento psicopatologico, destinate a vanificare ogni tentativo di autodeterminazione. Anti-racconto di formazione, il film presentava scelte di messa in scena asettiche per evidenziare la condizione dei protagonisti, chiusi in gabbie di solitudini e costretti a vivere l’educazione sessuale come una pratica grottesca, obbediente a una dinamica biologica. In tale contesto resisteva solo un pallido tentativo di lotta per la sopravvivenza, quello di Marina, la donna-bambina protagonista dell’intera vicenda, la quale, ossessionata dai documentari sul mondo animale di Sir David Attenborough visti in televisione, assumeva come strategia per sfuggire alla incombente perdita del padre malato la postura e i versi di creature esotiche, proiettando se stessa in un universo di immagini mentali, ma non per questo non dolorose, dove trovare rifugio.

Di questo “eremitaggio” animale Tsangari propone una nuova versione in The Capsule, dove un gruppo di giovani donne, rinchiuse in una villa sull’isola greca di Hydra, ridefiniscono le categorie di giudizio della loro microsocietà allucinata, vestendo i panni ora di martiri e ora di carnefici. L’opera si configura, dunque, sia come una paramitologia dark incentrata sui riti di passaggio sia come un divertissement erotico.

La condotta matrilineare diffusa nella struttura pone al centro una figura “divina”, interpretata da Ariane Labed, attrice feticcio di Yorgos Lanthimos, in grado di risvegliare dallo stato di minorità (colpevole?) le sue ancelle, creature dalle caratteristiche ctonie che vivono nascoste sotto cumuli di sedie o altri oggetti d’uso quotidiano, indossano una divisa da collegio, interpretano alla lettera gli ordini che la “madre” impone e le confessano con prostrazione i loro desideri immorali. Questo personaggio dai tratti lunari così si presenta alla comunità: «Sono stata qui da sempre e per sempre. Vi aspetto. Vi do il benvenuto. Vi istruisco. […] Paura. Piacere. Rabbia. Noia. Desiderio. Furto. Potere. Gelosia. L’ultima cosa che vi insegnerò è ciò che manca».

Sulla scena si moltiplica la presenza di animali dai tratti inquietanti: le ragazze, ritratte come creature mostruose in grado di ruotare la testa di 360 gradi, mostrano i denti e emettono ruggiti felini; gli agnelli che errano nell’ambiente si rivelano non creature cristologiche, ma sinistri partner rituali; uova di quaglia costituiscono il cibo da consumare di notte secondo le indicazioni della leader, ingoiate senza romperne il guscio; alcuni disegni rappresentano esseri fantastici che ricordano quelli delle miniature medievali.

Dell’indottrinamento condotto dalla leader non viene esplicitato il senso, ma è affidato allo spettatore il compito di trovare un’interpretazione e una giustificazione delle atrocità prodotte. Quale declinazione del mostruoso è semanticamente più densa? La dinamica orrorifica, la sua privazione di senso, o la sua concretizzazione morfologica? Il risveglio (momentaneo) di queste creature prima di rifugiarsi nel buio amniotico delle loro tane significa, in chiave simbolica, la breve entrata in contatto con la vita stessa, ma senza afferrarne il mistero, piuttosto subendone il linguaggio incomprensibile e inadatto a promuovere una pienezza del sentire.

L’interesse della regista per l’analisi dei rapporti di forza che, sotterranei, muovono e definiscono i destini umani è condiviso dal suo collega e amico Yorgos Lanthimos, dei cui film d’esordio è stata anche produttrice. Anche Lanthimos cattura il lato “estetico” della condizione di animalità propria della società borghese occidentale, la performatività della violenza esibita. In Dogtooth, per esempio, sceglie di ambientare la vicenda nello spazio chiuso di una villa, luogo dell’altrove negato, “latitudine zero” in cui sono confinati uomini e donne ridotte a sagome deformate da un intento educativo che li degrada a una condizione di esistenza ferina. Il titolo del film evidenzia l’ambiguità dell’intera vicenda: l’inquietante nesso inscindibile tra il dente canino da cavare per conquistare la libertà, secondo le regole imposte dal capofamiglia, e la resa all’educazione genitoriale bestiale, canina appunto.

In The Capsule si avverte l’influenza di Aleksandra Waliszewska: in diverse sue opere la pittrice polacca raffigura minuscole figure femminili che, in contesti stranianti dai colori tetri, si fondono con animali selvaggi e mostri spaventosi, divenendo oggetto di oscure fantasie sessuali. La contaminazione dei linguaggi artistici realizzata dalla Tsangari appare particolarmente studiata, dal momento che il film è stato commissionato dalla DESTE Foundation for Contemporary Art, del collezionista greco Dakis Ioannou, e successivamente ripensato come installazione visiva presentata a New York nel contesto di Destefashioncollection, a cui hanno partecipato, tra gli altri, il fotografo Juergen Teller, lo stilista Helmut Lang e la poetessa Patrizia Cavalli. La nuova veste formale del progetto prevede l’utilizzo di distorsioni e effetti 3D in grado di far interagire i disegni di Waliszewska con la dimensione spettrale in cui sono gettate le protagoniste del racconto.

Nel mediometraggio la relazione saffica tra le protagoniste si interrompe bruscamente, nel momento in cui la “madre”, dopo aver rivelato alle ragazze il loro essere donne in carne ed ossa, chiede di essere liberata dal suo destino di immortalità da una di loro, ritenuta la più forte per affrontare quest’ultima prova. Mentre si accinge a compiere il sacrificio, la prescelta viene morsa ferocemente al collo dalla presunta vittima, che le rivolge parole sprezzanti: «Sei una piccola cagna fortunata». Il prezzo da pagare per pensarsi umani non è altro che un atto di violenza.