Jacques Derrida, nel suo Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile (1979-2004), definisce l’“evento” come qualcosa che «fa irruzione, inaugurale, singolare soltanto nella misura in cui precisamente non lo si vede venire. […] L’evento, se ve n’è uno e che sia puro e degno di questo nome, non viene di fronte a noi, viene verticalmente: può venire da sopra, di lato, da dietro, da sotto, là dove gli occhi non hanno presa, appunto, non hanno presa anticipativa o prensiva o apprensiva. Il fatto che un evento degno di questo nome venga dall’altro, da dietro o da sopra, può aprire gli spazi della teologia […], ma anche dell’inconscio.»
L’evento a cui si è assistito al Laterale Film Festival è giunto allo spettatore da tutte le parti: da sopra, da sotto, soprattutto di lato. La questione dell’evento e dell’eventualità della visione e della percezione di una realtà, trasfigurata dalle forme del cinema, è al centro della rassegna calabrese: il cinema racchiuso (o fuoriuscito?) dalle immagini che hanno animato lo schermo del cinema San Nicola di Cosenza rappresenta infatti – seguendo lo slogan di questa settima edizione, Guardando Cadere Filmando – il precipitato di una congerie di sguardi verticali.
Spesso è stata pronosticata, in riferimento al cinema sperimentale, una probabile fine del mezzo cinematografico a favore di altre forme visuali e operatività tecnologiche; in realtà, il cinema proposto qui, pur rappresentando in varie forme ciò che si può definire sperimentale, non indica alcuna fine, alcun punto d’arrivo della ricerca, al contrario, preconizza e incarna una fase mai conclusa di ricerca di linguaggi, di sguardi e di pratiche.
Evidentemente variegato, il programma suddiviso in tre serate ha proposto grandi nomi del panorama di ricerca accanto ad altri meno noti che stanno tuttavia ponendo le basi per il cinema del futuro, spaziando dalla pratica del found footage alla sperimentazione in analogico, dall’animazione al digitale, dal più classico bianco e nero alla combustione del colore, dal documentario alla finzione onirica.
Risulta difficile (e forse totalmente inutile) individuare un filo rosso che leghi le opere, come se si volesse dare un senso, una categorizzazione stretta alla profonda libertà di pensiero e di sguardo che questi film manifestano. Per tale motivo, anche una discussione “postuma” come questa non può far altro che toccare i singoli film e tentare di restituirne il palpitare sottopelle.
Prendendo in prestito una citazione dal film Seven Images of Disappearance di John Winn, «L’affermazione “Questo è quello che vedo” si trasforma nella domanda “è questo quello che vedo?”», possiamo cominciare a porci domande, a riflettere su immagini che necessitano di spazio e che, una volta conquistato, lo dissolvono svanendo. Le sette immagini di Winn, ossia cartoline e fotografie con riproduzioni di quadri e persino la veduta del mondo reale al di fuori della propria finestra, inscenano la propria obsolescenza. Obliandosi (per azione meccanica di sbiancamento o per impossibilità di vedere), negano l’idea di immagine – anche cinematografica – rivelandone la totale identità con la vita quotidiana.
Il concetto di decadimento – delle immagini e della realtà – prende corpo (o forse lo perde disfacendosi in fumo) anche nel magnifico film di Ben Rivers, Ijen/London, dove i geyser acidi provenienti dalle profondità del vulcano Kawah Ijen, in Indonesia, corrodono in primo luogo il paesaggio, attraversato da rare figure umane quasi soffocate, ma anche la nostra visione del reale, forzatamente offuscata, e persino la pellicola 16mm, sferzata da combustioni solforose di colori accesi. Il soffocamento indotto dalla tossicità di un panorama lunare trova nelle parole poetiche di Sir Herbert Read, lette da una voce off, il proprio contrappunto: ci troviamo nell’Autunno del mondo (The Autumn of the World), nel quale si percepisce l’odore umido del decadimento.
L’attenzione, anche estetica, per il dato tecnologico (la registrazione di Winn è su MiniDV poi digitalizzato, Rivers filma in pellicola) porta l’attenzione su un aspetto fondamentale del cinema sperimentale oggi (come lo è stato da sempre): l’importanza rivestita dal dispositivo tecn(olog)ico, con apparati e materia manipolabile, sia fisicamente sia esteticamente. Non si parla solo della pellicola, di cui si fa enorme uso e della quale si parlerà ancora fra poco, ma anche di dispositivi alternativi ad essa, come le riprese di videosorveglianza che scorgiamo in A body, outside di Nik Liguori. Nell’ambito teorico dei cosiddetti Film Studies, le immagini fisse catturate da un occhio cieco come la telecamera di sorveglianza hanno suscitato sempre maggior interesse, poiché pongono quesiti sull’autorialità e sulla natura dello sguardo; in questo caso, tuttavia, la ripresa (apparentemente) di sicurezza, si carica di significati soggettivi attraverso l’uso di un testo “galleggiante” sullo schermo, che non è più sottotitolo di una voce ma diviene pensiero personale/spersonalizzato. Il tema della (perdita di) memoria affiora qui (e si vedrà altrove) come suggestione a fior di pelle, come il sussurro congelato da temperature siderali.
Il tema della protesi tecnologica, ossia dello sguardo non incarnato ma esterno all’occhio umano di cui hanno trattato molti teorici (come Walter Benjamin), è presente anche nel piccolo ma intenso film di Josh Weissbach This is how I felt, nel quale le immagini convulse, distoniche e “scompensanti” della realtà irriconoscibile sono riprese dalla macchina attaccata al petto del regista per 24 ore, mentre esegue un esame cardiologico. Il ritmo del battito cardiaco segna il passo di un flusso discontinuo e in disequilibrio, facendo dello spettatore un essere esterno e interno al corpo dell’autore.
A proposito di manipolazione tecnica, di battiti accelerati, oltre che di memoria personale e collettiva, il film elementale di Peter Tscherkassky, Train Again, rappresenta uno degli apici della sperimentazione cinematografica. A partire da fotogrammi di pellicola 35mm, sovrimpressi con metodi ottici e montati con la nota minuziosa opera di tagli e inserti del maestro austriaco, il cinema (ri)acquisisce la sembianza di velocità. Immettendo sullo schermo forse l’ultimo esemplare possibile di riflessione cinematografica sull’oggetto-treno, dai Lumière in poi, Tscherkassky opera la memoria attraverso la tecnica; secondo Ruggero Eugeni infatti: «La tecnica non opera più sulla memoria o con la memoria, come facevano la parola, lo scritto o la fotografia; essa opera la memoria tout court: è memoria in atto.» La memoria storica del cinema, dalla genesi alle avanguardie storiche fino all’omaggio a Kurt Kren e ai suoi 3/60 Trees in Autumn e 37/78 Tree Again. L’evento che non si vede arrivare di cui scrive Derrida non potrebbe essere meglio rappresentato che dall’arrivo sferragliante di una locomotiva: la stessa sorpresa dei primi spettatori del cinema delle origini a Parigi, o di chi assistette al colpo di pistola esploso contro la platea alla fine di The Great Train Robbery di Porter o anche di chi seguì la folle corsa in triciclo del bambino di Shining nei corridoi dell’Overlook Hotel prima di incontrare le gemelle; esempi questi, presenti nel film insieme ad altri, di sequenze memorabili che fanno da retroterra culturale del nostro patrimonio audiovisivo, decostruito e ri-mediato. Lo stesso cineasta afferma una sostanziale identità tra treno e (materialità del) cinema, in un’analogia tecnica e culturale inscindibile. Le interferenze di importanti frammenti di footage nel film dell’austriaco divengono sfondo fuori dal finestrino del treno che avanza, decostruendo, in una folgorante corsa, la pellicola stessa, la pelle dell’immagine.
Il riuso di immagini d’archivio è un ulteriore aspetto che caratterizza buona parte del cinema sperimentale. Alcuni esempi portati a Cosenza mostrano modi differenti di approcciare l’archivio, con uno sguardo più personale oppure collettivo. Il film intitolato «.» di Errol Franklin dimostra un approccio libero, personale, espressivo, sinfonico alle immagini amatoriali, i cosiddetti home movies che catturano la quotidianità delle emozioni e dei sentimenti, oltre che le avventure di viaggio. In questo caso, il viaggio sulla famosa Route 66 si carica di significati emotivi legati all’amore e alla condivisione della vita di coppia perfettamente espressi dalla ripresa “sporca” e dal montaggio che segue le impressioni catturate dai sensi.
Diverso l’approccio di Laura Samani in L’estate è finita – Appunti su Furio, dove gli home movies, provenienti da cineteche friulane e non solo, divengono evidenze incarnate di un racconto finzionale costruito dalla regista, con personaggi immaginari visualizzabili grazie alle riprese amatoriali. Il racconto di un amore estivo giovanile prende corpo in immagini di individui del passato che nulla c’entrano (apparentemente) con la storia, a dimostrazione dell’universalità del racconto/vita e al contempo del personale vissuto di ognuno di noi. L’operazione di Samani riesce così a far emergere ciò che non c’è, a fare affiorare l’invisibile – ossia il passato – in vite esperite da altri, ma nelle quali non è difficile identificarsi.
Il tentativo di ritrarre una vita singolare tramite l’uso di immagini familiari collettive fa da contraltare al ritratto singolo operato da Ilaria Pezone nel suo Ritratto temporale II – Emanuele. Il film, che si potrebbe chiamare documentario d’artista, è il secondo di una serie di ritratti ideati dalla regista, in forme di interviste ad artisti; in questo caso, il pittore Emanuele Sartori, seguito nel suo studio e analizzato nel suo “fare” artistico, diviene protagonista di una ripresa filmica modellata sulla base della sua pittura. Il tentativo di Pezone è una trascrizione inter/cross-mediale tra la pittura e l’immagine in movimento, il tutto in chiave chiaramente amatoriale o, come sostiene la stessa regista nel suo libro, (Cinema) di prossimità. «Ripresa e montaggio seguono il ritmo in totale empatia con il protagonista del ritratto. Il ritratto diventa un collage materico in movimento» afferma infatti la regista, focalizzando l’attenzione sulla relazione tra la forma delle proprie immagini in movimento e quelle statiche del pittore.
Anche il disegno (manuale o digitale) fa parte della selezione del Laterale. Nel programma, infatti, troviamo due film di animazione, Flumina di Antonello Matarazzo, che combina figurine in movimento di piccoli personaggi disegnati a fumetto con immagini statiche, sulle quali esse si muovono seguendo il ritmo di una colonna sonora molto coinvolgente, e Boywhood dei fratelli Enrico ed Emanuele Motti; il film, realizzato interamente con Photoshop, è un’animazione che racconta, in soggettiva, lo sguardo di un ragazzo con problemi di dipendenza. Egli cerca tranquillità nel contatto con la natura, con la sola compagnia del suo cane, ma ciò che appare come una via di liberazione si rivela come un luogo di rimembranze e di surreali presenze inquietanti.
La selezione del Laterale Film Festival evidenzia un posizionamento critico definito, una volontà di ricerca che si assimila a ciò che sostiene Derrida: «Quando si resta senza fiato davanti a un disegno è perché non si vede niente; ciò che si vede, essenzialmente, non è ciò che si vede, è di colpo la visibilità. Dunque l’invisibile.» L’invisibile che avanza all’orizzonte, venendo di lato.