Portare in scena la propria voce per interrogarla come altro da sé stessa. Muoversi tra estraneità e riconoscimento. Nel Sé come un altro Paul Ricoeur – oltre a rappresentare il moto costantemente oscillatorio dell’identità soggettiva – si focalizza sulla dimensione del «tra» (il sé e l’alterità), inteso come spazio di articolazione e condizione stessa del processo di riconoscimento. Il Laterale Film Festival è uno spazio evocativo, simbolico; uno spazio che restituisce tracce che si adagiano le une sulle altre, a volte sovrascrivendosi, altre intessendosi. Senza sforzo, spontaneamente, perché quello su cui ci si adagia è una consapevolezza profonda e sincera che lentamente si svela, e che supera l’ordine prestabilito. Il Laterale Film Festival decodifica il “codice”, lasciando il pubblico in uno stato di sospensione, in cui non si sa con chiarezza a quali regole risponda quello che si sta vedendo. Nella dialettica sé-altro/proprio-estraneo, Ricoeur mette al centro l’idea di «giusta distanza» (concetto, poi, ripreso a seconda della declinazione di «giusta memoria», «giusto» come equo prodotto della «phronesis» che media la distanza tra l’universale della norma e il particolare del caso singolo); una distanza, cioè, tale per cui è possibile entrare in relazione con quello che si svela sulla scena. Creando un sistema aperto, che si dispiega senza necessariamente definirsi.
Tra i vari stimoli suggeriti (ai quali si è chiamati a rispondere dentro di sé) si è parlato anche di postcritica (citando il testo di Mariano Croce, Postcritica, Asignificanza, materia, affetti), intesa non come superamento della critica, ma come spostamento laterale (!) e rifiuto di ogni regime statico di significato. Hegel parla di Aufhebung, per esprimere il carattere peculiare del processo dialettico, che supera un momento o una categoria e, al tempo stesso, li eleva e li conserva in un ulteriore momento o in un’ulteriore categoria, che – quindi – ne è la concretizzazione e il completamento. Si può, allora, accettare l’inesistenza di collegamenti rintracciabili e vedere – nel Cinema – un modo di intervenire nel mondo. Solo chi osserva è responsabile di una possibilità alternativa di azione, o almeno di sguardo. Nel cedere tanta “responsabilità” c’è un atto di estrema cura, che il Laterale Film Festival sa assumersi.
Questa «cura» è la somma di tutte le singole personalità che – da sette anni – curano (appunto!) il Festival recuperando visioni del mondo che possiamo definire «sperimentali», ma anche «alternative», «nuove», «familiari», «sfidanti», «creative». Portare avanti un progetto simile significa credere che si possa andare oltre tutto ciò che è riconosciuto e assimilato. Riflettendoci insieme (mai imponendo alternative, ma suggerendo possibili riflessioni), ri-elaborando anche quello che ancora non c’è, ma che potrebbe esistere. Il Laterale Film Festival si confronta con più realtà (quella che viviamo, ma anche quella che potremmo/vorremmo vivere), mettendo a fuoco domande essenziali, creando uno spazio comunitario e individuale insieme. Andiamo, allora, alla ricerca dell’invisibile che sta in fondo alle cose.
Tra i ventuno film presentati (intra)vediamo Bleared Eyes of Blue Glass di Park Kyujae, film tratto da Le onde di Virginia Woolf, opera che Marguerite Yourcenar ha definito «rivoluzionaria». Il corto – così come il romanzo – si focalizza sul Tempo, sul movimento perpetuo per eccellenza (quello dell’onda, appunto) e sull’idea di fluire, sforzandosi di galleggiare. Si riesce a riconoscere l’urto, quello delle «onde che si rompono a riva», dolorosamente, inghiottendo. Ma così come sospinge e ritira, l’onda getta e riprende; diventa materna, sostiene, accarezza, include. Questo è il ritmo. Ed è l’arte stessa – spiega Virginia Woolf – ad essere ritmo, e cioè: «Una veduta o un’emozione creano nella mente un’onda di ritmo molto prima che si abbiano le parole per riempirlo» (The Letters of Virginia Woolf, 1923-28). Così, alla fine, non c’è scelta, se non adattarsi al movimento. Ché proprio quando si è più dispersi, si è più interi, nonostante qualcosa resti sempre fluttuante, libero. In otto minuti ci si può sentire ben radicati, eppure ondeggiare, scorrere, incresparsi. Parole ed immagini si affollano, premono gli uni sugli altri. In questo movimento leggero e disancorato, si ascolta, stando meravigliosamente vigili.
In A Day, That Year di Stanley Xu è evidente come ci (ri)guardano i bambini (lo diceva anche Vittorio De Sica). Come cerchino approvazione, riconoscenza – o meglio riconoscimento – e come sia disfunzionale una relazione basata su un sistema di premi e punizioni. I bambini (ci) guardano e si rompono/ricostruiscono – anche – facilmente. La conferma François Truffaut ne Gli anni in tasca: «I bambini sono resistenti, sbattono dappertutto – contro la vita – ma hanno un angelo custode. E poi hanno la pelle dura». L’infanzia non è un mondo protetto, può essere anche una realtà in cui si sperimenta la frustrazione; dove, poi, si fanno tentativi provvisori di equilibrarsi/collocarsi/conoscersi.
Alétheia è un viaggio nei ricordi, quelli che hanno un suono riconoscibile e quelli che hanno perso consistenza. Il sogno diventa pensiero, il tratto diventa esistenza. Eleonora Cutini racconta e ricorda, con – legittima – paura di lasciarsi andare al prossimo istante ignoto. E se il prossimo istante lo creasse lei stessa? O si creasse da sé? In un susseguirsi di istanti-adesso, il corto coglie qualcosa che non ha passato né futuro: semplicemente è. In questo flusso di pensieri ci si abbandona al silenzio pieno di aspettativa che segue una domanda senza risposta. Anche se, in qualche luogo o in qualche tempo – forse – esiste una risposta intima, grande, reale. Alétheia, cioè «verità», «svelamento»: è di una tale purezza questo contatto con l’invisibile nucleo della realtà.
Da inseguire ricordi ad inseguire fantasmi arriviamo ad Up From the Dark Womb of the Earth, di Brandon Wilson. Qui, il prossimo istante lo creiamo insieme al respiro. Il mondo non ha ordine visibile e bisogna affidarsi all’ordine del respiro. Lasciare/lasciarsi accadere. Abdicando da sé stessi, andando oltre sé stessi e seguendo una luminosità – comunque oscura – che avvolge fittamente ciò che si vede e si sente. Trasforma tutto in qualcosa che è al di fuori di sé – altro – ed appartiene a sé. Adesso è un istante. Subito è un altro adesso. E un altro.
Manteniamo lo stesso ritmo in Test Objects, di Sam Drake, approfondendo le parole come se stessimo dipingendo più che un oggetto, la sua ombra. Le nuove forme che compaiono sono ogni volta diverse; bisogna muoversi, spostarsi, galleggiare, affondare, risalire. Liberarsi da qualcosa che ancora (ci) lega, entrare in unione con tutto. Non è facile. Ma ciò che sarà è già. Solo una consapevolezza (ci) possiede: la connivenza con il mondo.
Arriviamo a Baki Tadu É, di Kate Saragaço e Calum Macbeath Morgan. Non si pianifica nulla nel proprio lavoro intuitivo di vivere; si lavora con l’indiretto, l’informale, imprevisto. Il proprio impulso si lega a quello delle radici degli alberi. Il ritmo è lento, ma in crescendo. Seguiamo, poi, l’irridiarsi del sole nero in The End, di Richard Wiebe. Entriamo in contatto con una realtà nuova che ancora non ha pensieri corrispondenti e ancora meno ha qualche parola che la significhi: è una sensazione dietro al pensiero. Si tratta solo di non fare resistenza e di abbandonarsi.
Ci troviamo a La casa del Bosco, di Giovanni Benini e Luca Mantovani. Ci affidiamo al sogno, lasciamo occulto quello che ha bisogno di essere occulto e ha bisogno di irradiarsi in segreto. Non possediamo formule. Ci affidiamo, però, alla scrittura di Anna Maria Ortese, alla sua capacità di appropriarsi dell’inespresso, di vedere nell’invisibile – e attraverso l’invisibile – e di raggiungere il reale attraverso il sogno. Non è possibile riassumere perché non è possibile sommare tutto. In un’intervista di Dóra Szekeres concessa a Einaudi, Agota Kristóf afferma «non è possibile riuscire a esprimere esattamente ciò che intendiamo. Scrivere per me vuol dire anche cancellare tantissimo». Forse è questa la condizione indispensabile per riuscire a guardare da lontano? Forse. «Chi ama la luna davvero non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più», ha scritto Italo Calvino ad Anna Maria Ortese sul Corriere della Sera nel 1967. Cerchiamo di trovare un’identità propria e l’identità del reale. E se ci capiamo attraverso il simbolo è perché possediamo gli stessi simboli e la stessa esperienza della cosa in sé. Ma la realtà non ha sinonimi.
Abbiamo imparato a respirare? A guardare e a guardarci? A Space Intonation di Fabiano Teixeira Mota (ci) offre il momento per capirlo. E, mentre lo fa, (ci) fa rivivere all’interno di un labirinto in cui ci si perde in sé stessi. Rallentiamo. Siamo (ancora) in un sogno – quello di Antoni Orlof, nel suo Slowly – perché se fosse un incubo potremmo interromperlo presto. Basterebbe urlare e svegliarsi. Ma qui non si può. Ricordarsi del proprio passato (il corto è dedicato al padre del regista), portarselo sempre dietro, è forse la condizione necessaria per salvaguardare l’integrità dell’io. Per fare in modo che l’io non si rimpicciolisca, che mantenga immutato il proprio volume, bisogna annaffiare i ricordi come dei fiori in vaso, e tale operazione richiede un contatto regolare con i testimoni del passato, che sono il nostro specchio, la nostra memoria. Da loro non pretendiamo altro se non che, di tanto in tanto, lucidino quello specchio perché noi ci si possa guardare dentro. Altrimenti, se per un istante non riconosciamo chi ci sta accanto – o chi ci è stato accanto – e se per quell’istante l’identità (quella che Kundera ha analizzato) dell’altro si cancella, dubitiamo – di riflesso – della nostra.
Tre donne sono la stessa. Il cinema di Pedro Costa è attraversato dalla notte. As Filhas do Fogo è un insieme di micro e macro forme, dettagli che costruiscono un ambiente vivo e in ascolto, in continua trasformazione. Un ambiente e un tempo propri della notte. Eppure la riflessione è accesa – accecante – e (ci) consegna una verità essenziale: bisogna vivere. Un giorno sapremo il perché del dolore, lo sapremo chiamare/sentire. Il tempo scorre, si ripete; siamo spettatori, ma oltrepassiamo lo schermo. Pensiamo a Béla Tarr, al suo modo di «girare sempre lo stesso film», parlando ogni volta della stessa realtà, scavando ogni volta un po’ di più. Il mondo di Pedro Costa è spogliato di tutto ciò che attenua la sensazione pura che solo il cinema può offrire. Il cinema è un’arte del sensibile, non semplicemente del visibile. E ora, forse, possiamo dire di aver trovato anche l’invisibile.