Ringrazio la sedia la scala la poltrona
che mi accoglieva in improvvisa debolezza
quando improvvisa entrava nella stanza
del tuo corpo assoluto la certezza.
da Poesie (1974-1992), Patrizia Cavalli
È il minuto 08:06 del film del 1964 Bande à part quando fa irruzione nelle vicende del triangolo amoroso Franz-Arthur-Odile la voce off di Jean-Luc Godard, che si rivolge direttamente ad un ipotetico spettatore che in ritardo si siede in sala per assistere alla proiezione. Non propriamente una sintesi delle prime sequenze dell’opera nella sua dichiarazione, piuttosto «parole prese a casaccio» che sconfessano un rigore diegetico che il regista in primis intende disattendere: «tre settimane fa, parecchi soldi, un corso di inglese, una casa vicino al fiume, una ragazza romantica».
Nessuno degli elementi citati descrive un movimento o un passaggio di stato dei protagonisti avvenuto nell’arco di quei minuti, sebbene vengano lanciati sullo schermo come i Pat Garrett e Billy the Kid delle banlieue parigine in giro in una classica decapottabile; eppure è nell’accumulazione semantica di questi elementi che il dispositivo narrativo “dice di più” di quello che è il legame che li unisce: l’amore è un gioco indiziario che procede per ellissi e sconfinamenti, è un noir di serie b di personaggi sempre in corsa, mentre ci si dimentica del bottino.
L’affabulazione godardiana procede, divertita, verso la formulazione di una grammatica amorosa eccedente, empiricamente erotica – «Arthur chiese a Franz se davvero le aveva toccato le ginocchia; Franz disse di sì, e che aveva la pelle morbida» – e genuinamente naif: durante una lezione di inglese in cui viene chiesto di tradurre un estratto dall’opera Romeo e Giulietta di Shakespeare, Arthur rielabora un celebre verso dell’Amleto in una dedica allusiva scritta su un bigliettino per Odile, «tou bi or not tou bi contre votre poitrine, it iz ze question», «essere o non essere contro il seno di Odile», vale a dire essere o non essere il risultato di un linguaggio cinematografico tradizionale nel momento in cui, parafrasando Eliot, si è automaticamente nuovi. La lingua inglese viene parodiata e destrutturata nel suo potenziale evocativo, il linguaggio epico di Jack London e dei western d’oltreoceano sono il costante punto di riferimento per il gioco citazionistico del regista.
Adieu à la langue e non certo au langage, dunque, poiché rinnegare il sistema alfabetico permette di promuovere lo stupore semantico della mescolanza di immagini e parole. Godard, durante un’intervista in occasione del premio alla carriera conferitogli dal Film Festival di Kerala, nel mese di marzo 2021, proporrà un ulteriore gioco di parole in contrasto con il regime dominante della lettera, lettre, per promuovere una problematizzazione dell’essere umano, l’etre humaine.
Il discorso amoroso, inteso come emanazione di voce, luogo corporeo dove l’invisibile dà segni d’apertura verso il richiamo del reale e il cui limite significante viene sempre trasgredito nella pretesa sovrumana di restituzione di un significato puro, non può che coincidere con il dolce balbettio grammaticale che accomuna gli amanti di Bande à part a quelli di Plaisir d’amour en Iran di Agnès Varda. Se, come scrive Valéry, nella poesia è «il Linguaggio scaturito dalla voce, piuttosto che la voce dal Linguaggio», la regista francese decide di abbandonare nella cornice di un “c’era una volta” senza epilogo la propria coppia di protagonisti, tra i minareti di Isfahan, intenti a dedicarsi versi erotici. L’architettura incantevole del luogo è «misura delle loro voluttuose emozioni», in una prospettiva armonica in cui corps e décor sono sovrapponibili ben oltre il dato grafico: «queste cupole come il tuo seno»; «il tuo minareto non è affatto male»; «quella fontana mi fa venire sete»; «tutte le linee del tuo corpo sono gli arabeschi del mio giardino immaginario».
Abitare il giardino immaginario significa specchiarsi nei riflessi d’acqua delle sue fontane, in grado di restituire l’immagine deformata non solo della pienezza di ornamenti dei palazzi ma anche, per contrasto, gli spazi vuoti dei suoi archi: non una metafora architettonica ma un’architettura metaforizzata, che negli incroci tra arte sacra e profana valorizza un’esperienza d’amore travolgente.
Il cinema di Varda è arte della spigolatura, un’esaltazione del carattere tattile del medium cinematografico in grado di selezionare, curare, restituire ciò che è marginale rispetto alla centralità dello sguardo: nell’area di significati inclusa tra cadre e cadré, tra inquadrare e inquadrato, si inscrive il décadrage dell’artista, il suo linguaggio intimo dell’inattuale, capace di restituire il carattere profondo del legame che unisce le parole e le cose. «Quel che mi interessa di più è vedere, in modo che anche gli altri possano a loro volta vedere, non solo perché ciò dà piacere, poiché spesso è orribile quel che si vede, ma perché mi sembra una presa di contatto con le cose. Nei miei film vorrei sempre “far vedere” in modo profondo. Non voglio mostrare ma dare alle persone la voglia di vedere» ha dichiarato, infatti, insistendo sulla sua volontà di realizzare un cinema in cui tutto si tiene.
In Plaisir d’amour en Iran lo sguardo di Varda si avvicina con rigore ai corpi degli amanti, esaltandone metonimicamente la grazia: tutto è paesaggio, la pelle “recita” con la sacralità propria delle miniature dei minareti (si pensi, anni dopo, alle mani imperfette dell’autrice riprese in Les Glaneurs et la glaneuse, al loro potenziale interlocutorio). Proprio su una di queste raffigurazioni si concentra la macchina da presa, provando a carpire il segreto d’amore della coppia rappresentata, mentre ne viene raccontata la leggenda secondo cui l’uomo del dipinto morse il labbro della sua giovane moglie al punto da farlo sanguinare. Questa scena offre l’occasione per riflettere su come solo occasionalmente le donne siano raffigurate in compagnia degli uomini nei giardini incantati nell’arte persiana; segue una citazione del poeta Éluard, che dona un fascino onirico alla visita a Isfahan dei due protagonisti del corto: «Io parlo di un giardino… sogno… ma piuttosto amo».
Il film si conclude con il disvelamento del dispositivo filmico, in una chiave di lettura metanarrativa che, nel momento in cui dichiara che la vicenda si è svolta nel posto più eccitante per degli amanti, sebbene si tratti di personaggi di finzione, restituisce all’ecosistema cinematografico la dimensione ideale, e per questo incantata, per re-inventare un amore in grado di dialogare con le immagini e con il suono.
Bienvenue au langage, benvenuto al linguaggio, quindi: a quello che resta dell’irreale, dove «la voce esterna è solo l’eco di quella interiore, e viceversa: non c’è “luogo d’origine”, ma solo “presenza identica”» (C. Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, 2022).