Tutto ciò che è immerso nella luce non è che la risonanza di ciò che il buio sommerge.
Ciò che il buio sommerge continua nell’invisibile ciò che la luce aveva rivelato.
da Passion (1982), di Jean-Luc Godard
«Appena lasciata la città pulita e ordinata, si finiva in un’accozzaglia di quinte, come in quei piccoli teatri dove la scenografia della foresta ammucchia i suoi pannelli contro i muri della piazza. E tutti gli spiriti tenuti lontani dalla città erano rimasti là, in ascolto, attenti, pazienti, pronti a cancellare le tue tracce, a condurti verso false luci, a celare i tuoi nemici e a farti trasalire davanti ai tuoi stessi passi. Non una traccia, non un rumore, non una parola che li denunciasse. Ma era il loro stesso silenzio a tradirli, quell’opprimente e inverosimile silenzio della giungla, rotto soltanto dal galoppo di una fuga o dal grido di un attacco, perché là parla solo la Morte».
Stampato in Francia nel 1950, con il titolo Le coeur net, ed edito in Italia solamente nel 2022, Vederci chiaro di Chris Marker è un romanzo che ragiona, come il successivo cortometraggio La jetée dello stesso autore, sull’attività mnesica come spazio di articolazione dell’umano: l’intermittenza di immagini della memoria, la sua intrinseca bipolarità verbo-iconica, si configura come un viaggio individuale e collettivo a “fiato sospeso” tra l’immaginazione e il ricordo, la cui essenza avvicina il dato ottico-sonoro all’inconsistenza fenomenica delle ombre. Comprendere che questa chiarezza di visione, apparentemente ossimorica, di false luci e rumorosi silenzi non si appiattisce nello scacco matto annunciato del riconoscimento impossibile, ma ambisce a quel movimento di mondializzazione dell’immagine-sogno di cui parla Deleuze – «un’espansione dell’intero spazio e uno stiramento del tempo» -, fa sì che la memoria si determini come un atto di congiunzione tra noi e il mondo, dove nei processi mentali tra il visivo e il verbale si riscopre una possibilità universale di autopoiesi.
Il cinema sembra formarsi proprio su questa possibilità di relazioni inconsapevoli, dal momento che il suo linguaggio non può che esaltare il raccordo tra spettatore e spettri fluttuanti sullo schermo: in contrasto con l’uso dominante del verbo essere, le apparenze proiettate sono figlie di una negazione – per Barthes la fotografia è testimonianza del memento mori, il per-sempre-arte dell’istante catturato dice quello che nell’immagine non è o non è più possibile, assimilandolo a sé -, e trascinano chi le guarda in un regime percettivo che supera quello dello sguardo.
Il senso della morfogenesi di questi fantasmi sembra incoraggiare il regista thailandese Apichatpong Weerasethakul a compiere con Ashes, cortometraggio del 2012, un ulteriore perfezionamento del suo stile trascendentale. Realizzata con una Lomokino su pellicola da 35mm, l’opera già nella sua forma esteriore intende implicitamente allargare il campo di indagine sulla memoria al mezzo stesso, servendosi del suo carattere tecnico per restituire impressioni di un passato collettivo che ha a che fare più con il gioco enigmistico del sogno che con quello di un archivio famigliare.
Una passeggiata con il cane, un paesaggio campestre, un picnic, un gruppo di uomini nella foresta, una donna che si mette lo smalto; e poi, split screen, riverberi luminosi, particelle caleidoscopiche. Di questo si compone il corto, che fa dell’accostamento di queste immagini in analogico lampi di esistenza senza alcuna finalità narrativa. Unica eccezione nello stile di ripresa risulta essere la scelta di documentare in digitale la sequenza conclusiva dell’opera, che vede l’adunarsi di una folla per un funerale, mentre la camera è attratta dalle fiamme pirotecniche che conferiscono alla scena un tenore metanarrativo: «ashes», «ceneri» appunto, sono i residui di un’esperienza onirica, ma anche della vita presente, la cui consistenza brumosa e materica è ciò che rimane dell’uomo e della pellicola alla prova del tempo.
In questo territorio dell’inattuale, e dunque per questo sempre desiderabile, il gioco mistico del cinema sembra condurre lo spettatore verso la direzione di un racconto infinito, che fa della porosità dell’essere un’occasione di inattese combinazioni: se nel 2010 Apichatpong Weerasethakul aveva già affrontato il tema della reincarnazione con il film Palma d’oro al Festival di Cannes Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, è con questo lavoro di poco successivo che suggerisce come l’ineffabilità della memoria personale rappresenti un prerequisito misterioso per soffiare metaforicamente sulla polvere dei nostri passati inconoscibili, evocando i fantasmi proiettati sullo schermo delle vite che non fummo.
«All’inizio non sapevo che l’avrei fatto, ma alla fine volevo solo provare, per vedere se potevano andare insieme. E penso di sì, il digitale e l’analogico coesistono. In un film che parla della trasformazione, del… come si dice… del passaggio di qualcosa, in una situazione del tutto senza speranza. Il ricordo di qualcosa che non c’è più. L’ultima scena con i fuochi d’artificio è un funerale. Penso che questo dica qualcosa sul mezzo stesso, si sta trasformando o morendo» confessa il regista durante un’intervista (trad. mia) per Notebook Mubi, confermando come la struttura formale dell’opera sia del tutto coincidente con la tensione antidiegetica che tiene insieme le immagini mentali del corto. Nel momento di massimo sovraccarico visivo, dove il viraggio dei colori verso il rosso e il verde camuffa il movimento dei protagonisti senza nome del film come forma di vita in un paesaggio non terrestre, lo schermo nero introduce la prima e unica voce di Ashes, dominato integralmente dal tappeto sonoro dell’ambiente naturale.
Questa figura senza volto fuoricampo – forse lo stesso regista? – racconta «un sogno dentro un sogno», in cui disegna «gli edifici della memoria» della sua infanzia: l’uomo dice di voltarsi indietro più volte, consapevole che quell’immagine nebulosa di lì a poco sarebbe svanita, cercando di imitarne i colori, che piano piano scompaiono restituendogli un risultato in bianco e nero. Dare le spalle al sogno significa, quindi, attraversare la necessarietà della memoria, sforzandosi, quasi procedendo per sottrazione, di intuire il vero colore delle cose: disegnare e non fotografare, il cinema è una via di fuga metaforica.
La natura transeunte del ricordo, il suo complesso esserci in assenza, è assimilabile all’esperienza immaginifica e al tempo stesso concreta dell’ascolto, più che a un effetto déjà vu, come esposto da Walter Benjamin nella Cronaca berlinese del 1932, quando sostiene che «bisognerebbe parlare di eventi che ci giungono come un’eco risvegliata da un richiamo, un suono che sembra essere stato udito da qualche parte nel buio di una vita passata… È una parola, un battito o un fruscio che è dotato del potere magico di trasportarci nella fredda tomba di un tempo lontano, dalla cui volta il presente sembra tornare solo come un’eco» (trad. mia). Apichatpong Weerasethakul sembra fare sua questa lezione nello scollamento che realizza tra il codice ottico – esasperato nella sua fragilissima composizione cromatica, singhiozzante nel suo brillare acido – e quello verbale, proponendo una chiarezza di voce propria di un oracolo senza tempo.
Il fuoco consuma il ricordo e la pellicola che lo difende, ma nel suo ardere ne rivela l’esistenza. L’oggetto mentale per un attimo sfiorato vive nella polvere che è ancora capace di offrirne l’archivio e di stimolare l’immaginazione. Sta alla pazienza dello sguardo intuire che la leggibilità dell’immagine consiste in quella prospettiva di osservazione gentile tra il desiderio di possederla e il rischio di annientarla, come conferma il filosofo e storico dell’arte Georges Didi-Huberman nel suo saggio L’immagine brucia: «infine, l’immagine brucia della memoria, vale a dire che essa brucia ancora, anche quando non è più che cenere: come a dire la sua essenziale vocazione alla sopravvivenza, al malgrado tutto. Ma, per saperlo, per sentirlo, bisogna osare, bisogna avvicinare il proprio viso alla cenere. E soffiare dolcemente perché la brace, al di sotto, ricominci a sprigionare il suo calore, il suo bagliore, il suo pericolo. Come se, dall’immagine grigia, s’elevasse una voce: “Non vedi che brucio?”».