Esiste un recesso di cinema che tenta di catturare sullo schermo tutti i frammenti che compongono il reale. Questa tipologia di cinema non risponde a un’esigenza banale e usurata di immortalare sulla pellicola l’aspetto tangibile della realtà in una smania di mimesi da romanzo realistico ottocentesco, ma punta a far riemergere nella rappresentazione visiva le correnti sotterranee di immaginazione e di rivolta che innervano la realtà, i tentativi di rimodellarla, le forze oppositive che ne agitano le fondamenta e ne incrinano l’ossatura.
La maestra di questa rappresentazione degli interstizi di poesia e di potere immaginifico è sicuramente Agnès Varda: il cinema della regista belga è costellato da immagini e storie che si sviluppano sul filo di un equilibrio comunicativo tra un’atmosfera irreale e vicende radicate nella ciclicità del quotidiano, tra riflessione intimista e azione politica. Gli esempi di questi scambi reciproci che pervadono il suo cinema sono tanti, da La pointe courte (1955)a Cleo de 5 a 7 (1962). Ma uno degli esempi più estremi della necessità di legare l’osservazione dell’umano con la pratica politica è nel suo Sans toit ni loi (1985). Il film si apre con la fine: il cadavere di Mona, una giovane vagabonda, viene trovato assiderato da un contadino: da questo ritrovamento ritorniamo indietro nel tempo per ricostruire, attraverso un tentativo documentaristico, la vita della giovane. Da qui osserviamo il corpo di Mona che si aggira libero per le campagne francesi e lo seguiamo in un incessante vagare, intervallato da momenti di interazione con diversi esseri umani con cui parla, mangia, fa l’amore.
La presenza corporea di Mona è l’unico dato decifrabile e comprensibile, nonché quello che si impone maggiormente allo sguardo attraverso l’istintualità ferina dei suoi gesti: quello che rimane imperscrutabile, seppure altrettanto manifesto attraverso le sue azioni scoordinate, è la sua dimensione interiore, il sostrato che muove i fili delle azioni che vediamo compiere sullo schermo, che rimane inafferrabile e inintellegibile. La sua persona sfugge ai tentativi di identificazione della polizia e delle persone che l’hanno incontrata e cercano di incasellarla, di inchiodarla attraverso giudizi perentori che tradiscono l’ansia di rendere riconoscibile l’incomprensibile, l’insondabile. Il corpo di Mona è un corpo alieno rispetto al reale all’interno del quale si muove: è concreto nei suoi istinti e nei suoi bisogni ma è incompatibile con tutto ciò che lo circonda, la sua comunicazione con la società è costantemente interrotta. A renderlo un corpo estraneo è ciò che non si manifesta concretamente, ma che rimane su un piano irrealizzato e irrealizzabile, destinato a non concretizzarsi mai diventando parte integrata della realtà codificata, ma a rimanere un’ambizione disarticolata, che si realizza solo a metà nei continui tentativi della giovane vagabonda di recidere ogni vincolo. L’unico suo spazio per esistere risiede nella cancellazione di ogni limite, nella recisione di ogni legame e inibizione: ma proprio nel suo poter esistere solo attraverso la negazione e la sottrazione costante è destinato a non realizzarsi mai compiutamente, e perciò a non poter mai essere vissuto. Pervade e si lascia intuire dai gesti di Mona ma non è mai destinato a compiersi, le sue stesse azioni sono destinate a cadere nel vuoto e a realizzarsi solo nell’annichilimento totale.
Ma quest’anelito non scompare del tutto, nemmeno dopo la morte di Mona: lascia dei semi nei ricordi di chi si è imbattuto in Mona e ci aiuta a ricostruirne un quadro, per quanto confuso e contraddittorio, che ne attesta l’esistenza. Questi stralci di resoconti di incontri fugaci sono il testamento di quell’idea di libertà incarnata dalla giovane vagabonda. E se la realtà delle campagne francesi rimane tale e quale, il solo passaggio distratto e fugace di questo nucleo vagante di pulsioni, di desideri e di fantasie rappresentato da Mona ammette la possibilità dell’esistenza di altro, suggerisce l’esistenza di altre realtà possibili, di forze sotterranee e sibilline che operano clandestinamente e, crepa dopo crepa, rimodellano il paesaggio sociale.
Un altro personaggio femminile che prende in mano il suo destino e persegue la sua idea di libertà compare invece in un film italiano: la casalinga Rosalba del Pane e tulipani di Silvio Soldini. Il terreno comune su cui si trovano Mona e Rosalba è quello di un movimento senza meta nello spazio fisico e dell’anelito di maggiore autonomia: all’interno di questo terreno si trovano molte differenze che tracciano una mappa più complessa della rappresentazione delle donne ‘erranti’ nel cinema. Mona punta a una libertà assoluta che si consuma nell’autodistruzione di sé e sembra muoversi guidata da un istinto profondo imperscrutabile, mentre Rosalba, pur nell’attuare un cambiamento radicale nella sua vita, opera all’interno di vincoli precisi non puntando a una radicale distruzione ma più a una ridefinizione, a un cambiamento dei fattori in gioco. Mentre Mona è una figura solitaria priva di legami relazionali e di cui non sappiamo nulla riguardo al suo passato, Rosalba la vediamo inserita in un nucleo familiare che le ricorda con fare martellante quale sia suo ruolo prestabilito, quello di moglie e di madre. Anche dopo la sua ‘fuga’, Rosalba non è mai da sola e attraverso le sue peregrinazioni intesse una solida rete di rapporti significativi, arrivando a creare un piccolo mondo di affetti su misura, a immagine e somiglianza dei suoi sogni che riemergono dal passato.
Anche in Pane e tulipani la realtà è lacerata da fenditure di astratto, di onirico: queste increspature si integrano con armonia nell’azione filmica attraverso gli occhi di Rosalba, che filtrano lo sguardo dello spettatore e riconducono nell’ordinarietà quotidiana gli elementi più bizzarri e strampalati. Ciò che sembrerebbero stonato, dissonante, nella fuga di Rosalba si amalgama al routinario, diventa parte integrante e visibile dell’esperienza materiale.
L’idea di libertà è un filo che lega due personaggi femminili lontani nel tempo e nello spazio, diversi per temperamento e per ambizioni: mentre una persegue una libertà assoluta e totalizzante, una vita priva di ogni tipo di vincolo e che confluisce nella morte come negazione suprema di ogni cosa, la libertà dell’altra si realizza in un nucleo vitale più raccolto, che si costruisce attraverso piccoli gesti che puntano alla costruzione di una comunità di affetti che stimolino e nutrano i suoi talenti e le sue inclinazioni.
In entrambi i casi le modalità di narrazione cinematografica di elezione perseguono la linea della semplicità: senza nessun manierismo o gioco di specchi, gli avvenimenti che intessono il destino delle due donne trovano in loro stessi la forza visiva e narrativa, dispiegandosi davanti allo spettatore con naturalezza. Dal cammino disarticolato di Mona tra le spighe delle campagne francesi fino al vagare scanzonato di Rosalba tra i vicoli di Venezia accompagnato dal suono della sua fisarmonica e una pletora di personaggi fantasmagorici, lo scorrere delle loro azioni non ha nulla di retorico o artificioso, nonostante il suo essere dissidente e stravagante, stralunato e fuori dall’ordinario. La semplicità della narrazione nel mostrare la compresenza di scenari dell’esistente con gli scenari del possibile è una scelta radicale, così come lo è il convergere tra personaggi femminili e spinta di ripensamento e rinnovamento. Una convergenza che indica un’insoddisfazione, un’insufficienza: questa realtà non ha posto per queste donne, ma loro continuano ad esistere, ad agire al suo interno, a farne parte nel loro essere aliene.
Mona e Rosalba con la loro ricerca di qualcosa al di fuori di ciò che già esiste compiono un potente atto di creazione: il loro solo desiderio di altro crea l’alternativa, crea uno spazio interno e allo stesso tempo estraneo, una lacerazione in cui riconoscersi e da abitare. Uno squarcio creato dallo schermo sulla nostra stessa realtà, mostrandoci quello che si nasconde nel suo sottosuolo.