«I film hanno bisogno delle persone più che delle storie. Anche i paesaggi ospitano emozioni. (Hou scriveva spesso su carta colorata i caratteri giapponesi “天地有情”, che significano “il cielo e la terra hanno sentimenti”. Queste parole mettono in guardia dal vedere il mondo in modo antropocentrico). I dettagli della vita (ad esempio, “mangiare”) dovrebbero essere rispettati. La musica può soffiare come il vento attraverso una scena».
Con queste parole (trad. mia) il regista giapponese Koreeda Hirokazu introduce il collega taiwanese Hou Hsiao-hsien nel volume monografico a lui dedicato dall’Austrian Film Museum nel 2014 e distribuito a livello internazionale dalla Columbia University Press.
La poetica del frammento, che risponde più al tempo ipnotico del sogno che a quello dell’istante presente che si cristallizza, consente a Hou Hsiao-hsien di realizzare un cinema dell’interiorità, fatto di vite in miniatura agìte dal piacere estatico delle luci al neon di Taipei. La fotografia dai colori acidi, nel rigore estetico di inquadrature fisse, rivela la pura potenza dell’immagine sullo schermo come manifestarsi fluttuante del destino di chi la osserva. Attraverso un montaggio fatto di tagli netti, il continuo sganciamento a cui ricorre il regista risulta solo apparentemente contraddittorio sul piano narrativo, proponendo, invece, un divenire del pensiero che si fa sogno, in quel «processo primario» freudiano che si discosta dal principio di realtà che governa lo stato di veglia: dello stesso stupore che accompagna il ritorno alla coscienza dell’Io al risveglio, nel ripensare le fantasmagorie dell’esperienza onirica da poco interrotta, si caratterizza quel trucco di magia cinematografico antico, o meglio “millenario”, che fa di Millennium Mambo uno dei capolavori indiscussi degli anni 2000.
«Ogni tanto Vicky lo lasciava… ma lui riusciva sempre a riprendersela. Le telefonava, la scongiurava di tornare. Era una storia che si ripeteva, ne era come ammaliata, ipnotizzata; non aveva scampo… tornava sempre da lui. Dentro di sé si diceva: “In banca ho ancora cinquecentomila dollari taiwanesi… quando li avrò finiti, lo lascerò”. Tutto questo accadeva dieci anni fa. Era l’anno 2001. Il mondo intero festeggiava il Ventunesimo secolo e dava il benvenuto al nuovo millennio»: con queste battute di una voice over è introdotta sullo schermo la giovane protagonista, mentre passeggia in quello che sembra essere un tunnel. Il sottofondo extradiegetico del tema techno A Pure Person di Lim Giong a commento della sequenza di apertura conferisce, già dalle soglie del film, un carattere magnetico alla vicenda: la persona pura che, voltandosi, guarda in macchina, mentre quest’ultima sembra pedinarla come a volerne scoprire il segreto, ha la stessa voce del narratore esterno che da poco ha iniziato a raccontarne il mambo esistenziale, parlando di lei in terza persona.
La complessità della regia di Hou Hsiao-hsien sta proprio nel voler problematizzare il rapporto che intercorre tra memoria e sua rappresentazione: ripudiando il flashback inteso come circuito chiuso presente-passato-presente, la scissione interiore di Vicky, prigioniera della relazione tossica con Hao-hao, si esprime attraverso un racconto indecifrabile, che non corrisponde né al diario sentimentale né al ricordo di sé da una prospettiva terza. In questa scena-cerniera di Millennium Mambo, che non avrà alcuna soluzione narrativa nei minuti successivi, tra le barriere virtuali dei titoli di testa e il titolo dell’opera, mentre rievoca il passato di dieci anni prima dal momento in cui la voce onnisciente (?) ne trae il bilancio, la figura della ragazza si fa «pulviscolo di sensazioni attuali, esteriori e interiori, che non sono colte per se stesse, in quanto sfuggono alla coscienza» (G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, 1985), proprio come negli stati onirici di cui fa esperienza il dormiente.
Questa immagine-sogno di un tempo perduto e impedito è dotata di magia cinematografica autosufficiente per compiere una riflessione metanarrativa sulla possibilità di presentificazione del passato attraverso il codice visivo. Lo sguardo in macchina di Vicky nel tunnel a chi si rivolge? L’inabissarsi dell’immagine-ricordo segue la trama di un già-passato oltre ogni memoria, dove tempi lontani, ignorati e frammentati si uniscono in quel giardino dei sentieri che si biforcano – di cui parla Borges – che «comprende tutte le possibilità».
Hao-hao, dipendente dall’uso di anfetamina, vive alla giornata in un angusto appartamento di Taipei nell’ossessione nevrotica di esercitare il possesso sulla fidanzata Vicky, di cui controlla morbosamente scontrini e registro telefonico, arrivando spesso a litigate violente. La ragazza riceve di tanto in tanto dal partner biglietti con su scritto: «stavamo in due mondi diversi, poi di colpo sei piombata nel mio, ma non puoi capirlo perché non ti appartiene», e vive nell’incubo di non sapere come lasciarlo. Marginalizzata fin dentro casa sua, si fa figura della soglia, dotata di coscienza ma non di consapevolezza critica, ridotta a fare l’hostess in squallidi night club e a spendere tutto quello che guadagna in discoteca con gli amici, come a voler anestetizzare con l’alcol il male che porta dentro.
Hou Hsiao-hsien per tutto il film gioca con il corpo della sua protagonista con movimenti di macchina che ora, quasi anatomizzandola, sembrano enfatizzarne l’asfissia di una vita trascorsa distrattamente, ora sembrano concederle aria e vie di fuga metaforiche, quando lo sguardo dell’obbiettivo rimane fisso sugli ambienti interni nonostante la sua uscita dal campo. L’universo della ragazza può essere assimilabile a quello di Nana, protagonista del capolavoro di Jean-Luc Godard del 1962 Vivre sa vie: «Bisogna prestarsi agli altri e darsi a se stessi» recita il filosofo Montaigne, la cui citazione in esergo all’opera tiene insieme a mo’ di morale tutti gli episodi del film, apparendo sullo schermo mentre il ritratto del volto del personaggio, interpretato da Anna Karina, viene restituito nella sua enigmaticità a 360 gradi. Come in Millennium Mambo, anche nel film di Godard l’azione ha il via da una ripresa di spalle, che suggerisce che la chiave di accesso verso la vera voce dell’Io non ha a che fare con l’oralità, ma segue piuttosto una direttrice opposta, non esposta ed inconfessabile: durante il primo capitolo – Un bar. Nana vuole lasciare Paul. Il flipper. -, la ragazza si chiede quale sia il modo migliore per esprimere le sue idee e la sua volontà di allontanarsi, perché «più si parla più le parole non vogliono dire niente». Dei due amanti si intuiscono vagamente i contorni dallo specchio che copre la parete dietro il bancone del bar, che distorce la loro figura, myse en abyme di un lessico amoroso ed esistenziale contorto.
I due registi, in modo differente, giustappongono quadri di vita quotidiana di cui non risulta essenziale dominarne i concatenamenti, dal momento che l’asimmetria dell’esistenza rivela, attraverso la risemantizzazione cinematografica, la possibilità di un’inedita armonia psichica: il racconto di Vicky, iniziato in una discoteca durante un gioco di prestidigitazione dal titolo «Sogno di una colomba in volo», si conclude nella ghiacciata Hokkaido, nel nord del Giappone, durante il periodo di un festival cinematografico locale. Lì, tempo prima, con alcuni amici per la prima volta si era divertita veramente, giocando a fare nella neve dei calchi del volto. La poesia in immagini di Hou Hsiao-hsien sta proprio in questo esercizio asintotico, nel tentativo, cioè, di ribadire l’ineffabilità dell’illusione di presentificazione del ricordo, accettando il trucco magico del cinema per quello che è.
Le ultime parole di Millennium Mambo sono affidate nuovamente a quella voice over altra da Vicky, eppure interamente sua, che commenta un’immagine-sogno di dieci anni prima: «una sera Vicky, mentre faceva l’amore con Hao-hao, immaginò per un istante che lui era un pupazzo di neve, che, al sorgere del sole, si sarebbe sciolto e sarebbe svanito dalla sua vita. Com’era stato triste fare l’amore quella volta». Neve e memoria: lo stesso cambiamento di stato.