«La videoarte è propriamente Arte e non Cinema. […] Il metodo fenomenologico […] permette di descrivere i fenomeni senza applicare griglie interpretative dogmatiche o riduzioni di campo d’indagine, riportando al centro del dibattere l’opera in quanto cosa in sé.» Così scrive Piero Deggiovanni nel suo Antologia critica della videoarte italiana 2010-2020 (Kaplan, 2019), ponendo l’accento sull’autonomia di questa forma d’arte rispetto ad altri linguaggi cinetici e pratiche audiovisive alle quali essa è stata più volte assimilata, come il cinema sperimentale o documentario, l’animazione, il teatro o la danza.
Nel contesto dell’arte contemporanea, infatti, l’ibridazione dei linguaggi è divenuta la norma poiché, come riporta ancora l’autore nella nota introduttiva del libro: «citazione, postproduzione, e persino plagio ragionato sono, da quasi quarant’anni, le poetiche dominanti del mondo dell’arte». Al fine di avere la capacità di sondare il complicato materiale visuale che caratterizza l’epoca digitale nella quale lo spettatore è immerso, non è trascurabile l’importanza di una precisa costruzione teorica che metta a problema i discorsi sulle immagini in movimento e che sollevi questioni relative ad esse, ai mezzi con i quali sono realizzate e alla loro fruizione. Per questo motivo sono necessari strumenti metodologici ed espressioni pratiche che pongano anche domande, e non forniscano esclusivamente risposte. Data la polivocità problematica della contemporaneità e della produzione iconica, gli studi profusi in un variegato contesto culturale hanno condotto in direzioni molto diverse e al contempo ad approcci multidisciplinari ricchi di suggestioni.
Lungi dal voler ricostruire qui le varie posizioni critiche e teoriche formulate dagli studiosi intorno alla videoarte nel corso dei decenni, è però interessante riflettere su qualche elemento fondamentale per un primo approccio e, soprattutto, sullo statuto di questa arte oggi, seguendo la spinta propulsiva di una rassegna come Videoart Yearbook. L’annuario della videoarte italiana che ogni anno (dal 2006) si propone di mostrare la più recente produzione videoartistica nazionale, operando una campionatura e una ricognizione attenta nei confronti delle linee espressive privilegiate nel settore e degli autori più attivi.
Il comitato di selezione e la curatela del gruppo di studiosi e professori – composto quest’anno dall’immancabile Renato Barilli, Piero Deggiovanni, Pasquale Fameli e Silvia Grandi – che organizza la rassegna ospitata al DAMSLab di Bologna, sembra rispondere ad una mancanza: la carenza di «critici militanti» (P. Deggiovanni, Kaplan 2019) che lavorino sul campo scovando le nuove leve e le sperimentazioni più interessanti del contesto videoartistico comporta la parcellizzazione e la difficile ricognizione di un’arte che, come si immagina, è inevitabilmente diretta a sconfinare gli specifici artistici, a favore di una ibridazione crescente dei mezzi e dei linguaggi. È forte quindi l’urgenza di costituire un’antologia critica della videoarte, esigenza che si esprime nel consueto appuntamento dell’Annuario.
Per comprendere questa espressione artistica è innanzitutto necessario porre qualche punto cardinale, al fine di non confondere (almeno nella ricostruzione storiografica e teorica) questa con altre forme espressive. Citando ancora Deggiovanni, va ricordato che
la videoarte, come genere artistico autonomo, è nata dopo il convergere di tre condizioni operative: 1) la digitalizzazione dei segnali analogici e la conseguente egemonia del software a larga diffusione; 2) la convergenza di più discipline artistiche al suo interno; 3) il festival e la rassegna museale con canali distributivi privilegiati a fronte del simultaneo abbandono del sistema dell’arte tradizionale nel rapporto galleria-collezionista.
A partire dagli anni Ottanta si verifica il passaggio dal tubo catodico al video proiettore e solo nel 2007 si può indicare la data spartiacque tra stili differenti, da quelli legati alle «estetiche concettuali, minimali, postmoderne» alle successive «estetiche autogenerate dalle ibridazioni linguistiche»; in questo contesto, si assiste al progressivo utilizzo del mezzo video non più solamente come mezzo di elezione dei videoartisti ma anche di coloro che provengono da altri campi disciplinari, come teatro, performance, danza, cinema documentario, sperimentale e animazione. La presenza di Internet e le possibilità di diffusione capillare dei prodotti audiovisivi comporta poi un ulteriore passo nella direzione dell’ibridazione e della crescente perdita d’interesse istituzionale (ossia di contesto museale) verso queste opere; disinteresse che, paradossalmente, permette alla videoarte di acquisire una piena autonomia e libertà linguistica, conquistando spazi di fruizione nuovi, come rassegne e festival dedicati.
Il linguaggio diviene il campo d’indagine: è necessario interrogarsi sulla cosa in sé, sulle poetiche, più che sul mezzo, in quanto il mezzo video è ormai comune a tutte le produzioni, anche digitali. Il contesto tecnologico nel quale si inseriscono le opere di videoarte non rappresenta più, a differenza di quanto valeva negli anni ’70, il discrimine per cogliere le peculiarità di queste immagini in movimento. Piuttosto, la poetica, la retorica, i temi e le specificità linguistiche costituiscono il punto cruciale, la natura di questa arte, il suo specifico. Afferma ancora l’autore:
La digitalizzazione di tutti i segnali analogici ha di fatto permesso agli artisti di superare ogni limite espressivo e di elaborare nuovi immaginari grazie alle immense potenzialità del software. Rotti gli argini di una certa ortodossia, o meglio, abitudine a pensare al video come oggetto, le produzioni monocanale hanno assorbito tecniche e linguaggi desunti da altri ambiti creativi come la grafica computerizzata o il montaggio cinematografico, mescolandoli liberamente, ma sempre entro l’alveo retorico dei linguaggi simbolici. Il risultato è una variegatissima area che ho definito della videodiversità di cui il Videoart Yearbook rappresenta un valido strumento di indagine e ricognizione. (Deggiovanni)
Quest’anno, la rassegna ha presentato la consueta selezione di quindici video della durata compresa tra i 2 e i 6 minuti, oltre ad una seconda sezione dedicata a tre autori e autrici più volte presenti all’interno del Videoart Yearbook nel passato, le cui opere superano i 10 minuti di durata, segnalando un rinnovamento nella ricerca estetica: la dilatazione dei tempi deriva infatti da un sempre maggiore interesse verso una linea «post-fiction» della videoarte, che richiede, appunto, maggiore tempo e attenzione. Gli artisti presentati in questa sezione sono il duo Apotropia (Antonella Mignone e Cristiano Panepuccia) con A Deepward rise (2023), Elena Bellantoni con Se ci fosse luce sarebbe bellissimo (2023) e Devis Venturelli con Minuit d’argent (2021) e, come si vedrà, sembrano incarnare alcune delle caratteristiche precipue della videoarte oggi, che creano vie di sperimentazione in grado di tessere fili tra i molti nomi presentati.
È possibile infatti riscontrare qualche tema ricorrente nella rassegna realizzata a Bologna, temi che, seppur declinati con stili, tecniche e tecnologie del tutto differenti, incarnano il paradigma della sperimentazione videoartistica tout court. Innanzitutto, il corpo. «Il rapporto tra videoarte e corpo è primordiale», ed in effetti si nota come in un folto gruppo di artisti e artiste esso assuma il rilievo di protagonista dell’azione, della rappresentazione delle sperimentazioni linguistiche, divenendo il tramite per una riflessione profonda sui rapporti umani e sulla conoscenza del mondo. «Il corpo è il nostro medium generale per avere un mondo» sostiene a tal proposito M. Merleau-Ponty.
La prima che vogliamo citare è l’opera di Sara Bonaventura, The left hand of darkness (2019) nella quale, come scrive l’artista, siamo di fronte ad un esercizio: «Si tratta di un esercizio di disegno, che registra in tempo reale la mia mano sinistra e un foglio bianco; la mano destra non teneva una matita, ma regolava le manopole e il patching degli oscillatori. […] Sembra facile, ma non è così comodo, piuttosto un processo di protesizzazione in cui una parte del corpo molto familiare diventa aliena, risucchiata dal vortice inquietante delle macchine.» Direttamente ispirato agli studi profusi da Woody Vasulka e Brian O’Reilly nei loro Scan Processor Studies (1973), Bonaventura indaga una parte del proprio corpo “manipolandola” (non a caso) tramite strumenti elettronici che ne restituiscono un segnale a onde, tramite una pratica che richiama l’embodiment del mezzo tecnologico.
Come precisa la professoressa e storica dell’arte Silvia Grandi:
l’impiego artistico del video è storicamente connesso alle esperienze della performance, pertanto, la corporalità e il comportamento continuano a giocare un ruolo centralissimo anche nella più recente ricerca video, ambientando l’azione in situazioni e contesti scenici appositamente costruiti. È quindi l’estensione della ‘performance vestita’, incentrata sul camuffamento e sull’interpretazione di un ruolo, che si orienta verso la materializzazione di un immaginario non privo, talvolta, di elementi citazionisti e revivalisti.
Nelle opere di Salvatore Insana (Red, 2023) e Carlo Magrì – Paola Samoggia (Hope, 2021), ad esempio, il corpo delle performer che si muovono in spazi ristretti e in scenografie minimali (un angolo di una stanza illuminato di rosso – “IT’S NOT BLOOD, IT’S RED” – nel primo, un cubo nero con scritte bianche alle pareti, che man mano sbiadiscono con il movimento del corpo, nel secondo), rispecchia una ricerca cinetica e concettuale che ha nella danza e nella performance fisica il suo specifico. Questi lavori rimandano in parte alle sperimentazioni degli anni ’70, quando il corpo degli artisti fu per la prima volta mezzo di espressione estetico-politica e, al contempo, rispecchiano le più recenti linee di ricerca della videodanza e della video-performance. I movimenti minimi e pressurizzati conferiscono ai due video una intensa potenza contemplativa.
Francesca Lolli (Run, baby!, 2022) sfrutta il corpo della performer per comunicare un’urgenza: «Tutta la mia ricerca si può racchiudere in un’unica parola: urgenza» afferma l’artista; «È l’urgenza che porta alla comunicazione, ed i mezzi che ho scelto per fare ciò sono quelli a me più congeniali: il corpo e il video.» È con il corpo che corre, combatte e scappa, ricalcando il linguaggio del videogioco, che l’artista ci comunica informazioni e dati riguardo alla violenza sulle donne nel mondo, gettando luce su fatti ancora insanabili.
Il duo Citron Lunardi (Compost N. 3, 2023) racconta un mondo quasi post-umano (o, come scrivono gli stessi artisti, «a human compost world») intersecando scienza, videoarte e scultura digitale; un universo caratterizzato da un continuo processo di composizione e decomposizione, dove un corpo femminile naviga in un paesaggio liquido e tecnologico e «diviene linfa vitale per una rigenerazione di un essere ibrido umano/non umano, unica speranza per un pianeta danneggiato».
A lavorare col corpo e con i sensi, in particolare l’udito, troviamo anche Duccio Ricciardelli e Marco Bartolini con Iperacusia (2022), nel quale una ripresa ravvicinata di mani che coprono un volto in ombra trasmette tutto il fastidio e l’angoscia causati da un paesaggio sonoro composto da rumori invadenti e suoni del mondo.
Esiste poi un passaggio, dall’uso del corpo all’allegoria, che riscontriamo nel lavoro di Marcantonio Lunardi Pietas (2023), dove una successione di tableaux vivants presentano le catastrofi del mondo, dalla pandemia declinata in salsa Vermeer, alla sovraproduzione di scarti industriali contrapposta ad una rivisitata pietà classica, fino a temi ecologici e antropologici, trattati sempre con estremo rigore formale, compositivo e luministico, oltre che sonoro.
Le parole di Pasquale Fameli risuonano a tal proposito come una perfetta spiegazione del concetto: «Elaborando una dimensione finzionale, l’opera video decostruisce i codici filmici e riattualizza le strategie persuasive della retorica. L’allegoria, intesa come azione da interpretarsi diversamente dal suo significato apparente, diventa quindi un mezzo utile per riflettere su aspetti cruciali della nostra esistenza, sulla difficoltà delle relazioni o sulle barriere che separano gli uomini».
A proposito dell’interpretazione della nostra esistenza, anche Lino Strangis in Posthuman condition (2022) si interroga sulla condizione umana. La manipolazione digitale, altro dei temi cardine della videoarte attuale, è lo strumento attraverso il quale l’artista riflette sulla relazione tra un surfista ed il mare, la quale diviene ancora metafora e allegoria della vita. Il monito che scaturisce è che non si possono governare le onde ma si può solamente provare a cavalcarle.
Manipolazione tecnologica che ritroviamo anche in forma differente in Expanded_memory (2022) di Lorenzo Papanti, opera dove ad essere indagato e alterato non è più il corpo umano ma il corpus architettonico. Le immagini di palazzi e edifici vengono infatti amplificati digitalmente «attraverso un software, esplorando una dimensione che non esiste. Gli algoritmi cercano di replicare la costruzione umana, interpretandone le secolari stratificazioni».
L’astrazione e l’animazione di oggetti immobili tocca un ulteriore tema fondamentale, ossia la pratica dell’animazione digitale, che ritroviamo nel lavoro di Michele Bernardi (Revelation, 2021): grazie alla tecnica del disegno digitale animato, l’artista accompagna l’esecuzione del brano di Luciano Berio “Call (St. Louis Fanfare)” eseguito dal quintetto di fiati Billi Brass Quintet.
Anche in Tree story (2021) Rita Casdia utilizza l’animazione, stavolta in stop motion, per dare vita a figure antropomorfe e larve che si muovono in uno scenario neutro. «Durante lo svolgimento degli eventi percepiamo una strana incertezza e indeterminatezza» confessa l’artista, che continua «L’albero, infine, da simbolo della vita e della natura generatrice diventa un’immagine di vitalità anomala e deformata.»
L’animazione potente e ritmata di Igor Imhoff ci riporta, con il suo You will never know my name (2022), nell’ambito di una sorta di futurismo postumano o di profondo passato immerso nell’oscurità primitiva del tempo, dove la lotta ancestrale per la sopravvivenza si incarna in figure fantasmatiche illuminate al neon, immerse nelle tenebre in una perenne, a volte violenta, ricerca di sé.
In ambito animato possiamo annoverare anche il lavoro di Silvia de Gennaro Travel notebooks: Cairo, Egypt (2022), collage digitale in 2D che racchiude dettagli di fotografie, visioni e disegni, animazioni, percezioni e suoni di un viaggio, rappresentando non la città in se stessa, ma la percezione che di essa ha il viaggiatore una volta tornato a casa.
A proposito di approccio comunicativo e di videoarte come mediazione, il lavoro di Basmati Video (duo composto da Audrey Coïaniz e Saul Saguatti) intitolato The video is the massage (2022) riprende dall’omologo libro realizzato grazie alla collaborazione di Marshall McLuhan e del graphic designer Quentin Fiore (The Video is the Massage. An Inventory of Effects, 1967), mostrando una rappresentazione ritmica delle pagine del libro-collage, inteso più come campo di gioco che come testo accademico. Le pagine del libro sono infatti spazio di sperimentazione linguistico-figurativa, di travestimento ironico di un testo denso in giochi espressivi che coinvolgono il lettore, stimolato alla comprensione del ruolo dei media nella contemporaneità, anche grazie agli effetti che essi provocano. Il video rispecchia questa animazione comunicativa, utilizzando colori forti e ritmo sostenuto, “rimediando” cioè un contenuto meta-cartaceo in un formato differente, elettronico.
Enrico Dedin con il suo Nature Training Center (2021) restituisce una critica al mondo social nel quale «emerge un unico dogma: Mi alleno quindi sono». A proposito di comunicazione, lo strumento dei social network sembra diventare luogo di dissipazione, ambiente ibrido nel quale la rappresentazione della natura diviene sfondo e scenografia per allenamenti di individui che cercano ossessivamente il consenso altrui.
Come si diceva all’inizio di questa carrellata, la sezione extended dell’Annuario sembra ripercorrere alcuni dei temi ricorrenti della selezione. L’aspetto simbolico-allegorico è riscontrabile nel video di Apotropia, dove troviamo «un percorso ascensionale simbolico che porta in superficie l’opposizione fondamentale tra il visibile e l’invisibile, il conscio e l’inconscio, il cielo e la terra.»
Nei video di Bellantoni e Venturelli ritroviamo il corpo e la performatività. Elena Bellantoni realizza un video dove i gesti del lavoro quotidiano dei dipendenti all’interno dell’azienda Dino Zoli Textile si uniscono ad azioni performative collettive, per creare un contesto e un ambiente condiviso. L’abbraccio collettivo finale dei quattordici dipendenti vestiti con abiti-scultura conferma come il corpo della videoarte non sia solo quello individuale ma contempli anche l’altro, in un rapporto di prossimità e di distante confidenza.
Venturelli, invece, indaga un corpo specifico e ben identificato attraverso un occhio attento al dettaglio. L’immagine della vecchiaia nuda, parcellizzata in particolari sinceri, riesce a riunire in sé, oltre al tema del corpo, anche quello dell’allegoria, senza lasciarsi scappare una ironica riflessione su come, attraverso l’utilizzo di oggetti come parrucche di capelli canuti, si possano creare pattern visivi astratti che contribuiscono allo statuto surreale dei modi d’espressione.
La pratica videoartistica si configura quindi come un metodo espanso di visione, percezione, pensiero e restituzione, poiché travalica i mezzi, usandoli tutti; dalla ripresa filmica tradizionale alla computer grafica, dalla manipolazione elettronica all’animazione in stop motion, l’aperto uso della tecnologia trova rispecchiamento nella libertà espressiva e linguistica degli artisti visuali, che sembrano credere ancora nella potenza creatrice dei segnali.