Una giovane donna dal fare straniato, al bancone della sala ristoro di un desolato hotel di Kinetta, località turistica balneare nei pressi di Corinto, prima di sorseggiare il suo caffè si rivolge con una domanda inattesa all’inserviente del bar: «Ho qualcosa nel mio occhio?». La battuta, la prima di poche presenti in questo film dominato da silenzi e rumori meccanici, segna l’esordio di Yorgos Lanthimos alla regia, inscrivendo la sua ricerca estetica ed esistenziale nel dominio della vista: l’occhio, metonimicamente parte di un tutto patologicamente compromesso, viene a rappresentare il confine tra la vita e la sua rappresentazione, è simbolo di esistenze stritolate dalla coazione a ripetere – e a vedere – comportamenti senza senso, frutto di simulazioni.
La sensazione di spiazzamento percettivo a cui tende il regista si compie anche grazie alla scelta destabilizzante della macchina da ripresa a mano, come a suggerire fin da subito un punto di vista al tempo stesso familiare eppure decentrato: nel suo vorticoso e traballante incedere si inseriscono le vicende dei tre protagonisti, paradossalmente caratterizzate da una gelida routine e scandite da un eterno presente che non prevede alcuna possibilità di redenzione.
Nello spazio visivo che fa coesistere una messa in scena fin troppo accelerata ed esistenze in perenne slow-motion, Lanthimos propone una vicenda incentrata sulla depressione e sulla solitudine, priva di sviluppo narrativo: la trama risulta piegata, infatti, alla volontà dell’autore di addentrarsi in queste vite senza scopo, segnate fin da principio da deliri normativi che impongono la perdita dell’identità. Come avverrà nei lavori successivi del regista, in questo film l’attenzione rivolta al lato performativo dei ruoli che assegna la società si collega alla riflessione metacinematografica, comportando un movimento della macchina da presa coerentemente slegato da ogni slancio empatico. Mentre Dogtooth è la storia di una persona che tenta di fuggire da un universo posticcio e Alps mette al centro protagonisti che si impongono di entrare in un mondo di sostituzioni, Kinetta propone, infatti, tre soggetti che sfuggono dalla vita reale attraverso un processo di falsificazione.
L’arte di riprendere/rsi, nell’epoca della riproducibilità tecnica, si esprime attraverso la scelta di un regista – il nostro Lanthimos – di misurarsi con un protagonista inattendibile, senza nome e senza passato, che nella perversione di essere a sua volta regista della pantomima di aggressioni realmente accadute scappa dalla vita. A questo poliziotto/direttore alla regia si uniscono due giovani – un fotografo per professione, che ricorda fisiognomicamente il vero Yorgos, e una giovane cameriera locale, vittima delle atrocità filmate – che di volta in volta ricevono incise su cassetta le indicazioni sui ruoli da impersonare (nel successivo Dogtooth, i figli della famiglia protagonista subiranno l’educazione paterna proprio attraverso messaggi affidati a una audiocassetta, attraverso la quale si compirà la manomissione dei codici comunicativi). Più che violentemente soggiogati dalle regole imposte, i due attori risultano irrimediabilmente svuotati e pacificamente agìti da una comunicazione vincolata ad una spastica fisicità, che non prevede vie di fuga dalla recita delle barbarie.
La dittatura della macchina da presa si compie attraverso scelte che risultano in pieno contrasto con il disordine delle pulsioni deviate dei personaggi, preferendo scenari asettici e desolati come quello costiero di Kinetta d’inverno, setting perfetto per un’umanità apatica, ritratta con una palette di blu e grigio, colori che perfettamente suggeriscono allo spettatore la cancrena della volontà che consuma i protagonisti. Fin dalla prima violenza messa in scena, viene ricercata fittiziamente la morte in luoghi sciatti, dove a risuonare sono solo le attente indicazioni del perverso regista: i corpi dei giovani agiscono con movimenti spasmodici sotto il freddo sole di una realtà turistica deserta, in un pianosequenza alienante e impersonale che condanna lo spettatore alla visione di un combattimento di cui ignora le cause e le regole. Tutto suscita un senso di asfissiante frenesia, un malessere inevitabile in chi voyeuristicamente si affaccia sul mondo di Kinetta senza conoscerne i codici comunicativi. Il surrealismo “iperrealista” di Lanthimos si palesa fin dal suo esordio, quindi, confrontandosi con quella materia oscura che è il mythos delle degenerazioni, vale a dire il senso di disincanto alienante di chi si scopre schiavo dei giochi di potere perfino nel suo corpo.
A chi non sa che cos’è vivere, risulta impossibile capire che cos’è la morte: questa sembra essere l’apocalisse psicopatologica che grava sulle teste dei tre protagonisti, abbandonati a loro stessi nella condanna a far perdurare le vite. La pantomima della violenza non è introdotta da grida che ne segnalino l’inizio, né tantomeno sono possibili richieste di aiuto per chi vede “scolorare” il perimetro del proprio Io in quello di chi viene a mancare. Eloquente e drammatica è la prima sequenza del film, dove si vede il giovane fotografo ritratto in piedi sul ciglio di una strada ad osservare un’autovettura capovolta a seguito di un incidente mortale, dalle cui casse ancora esce la melodia di una musica popolare; una volta rimossa l’audiocassetta dallo stereo della macchina e inserita nel proprio walkman, questo cupo aiuto-regista si reca in un cimitero e contempla una lapide. Risulta evidente che «l’ossessione per la morte non è la ricerca esistenziale di un senso o di un limite ma il tentativo di trovare qualcosa che rappresenti un’esperienza di immedesimazione oggettiva» (R. Lasagna, B. Pallavidino, Anestesia di solitudini, Il cinema di Yorgos Lanthimos).
Questo alter-ego di Yorgos Lanthimos interpreta simbolicamente la catatonia delle esistenze del trio, segnate da un silenzio assordante nella ripetizione dei fatti di cronaca nera con lo scopo illusorio di colmare il vuoto delle loro vite. Inevitabile è il richiamo al film cult di David Cronenberg Crash (1996), dove, sullo sfondo di una asettica metropoli, alcuni individui perennemente sospesi tra sesso e morte fanno esperienza feticistica delle proprie pulsioni attraverso simulazioni clandestine di incidenti automobilistici che hanno coinvolto personaggi famosi, eccitandosi nel filmare i corpi dilaniati negli scontri.
«Un incidente stradale è un evento legato alla fertilità anziché alla distruzione. È una liberazione di energia sessuale che trasmette la sessualità di quelli che sono morti con un’intensità che è impossibile in ogni altra forma»: queste le parole del protagonista Vaughan, capo di una setta fondata sul principio del vincolo ipersessualizzato tra lamiere ammaccate e mutilazioni, parole che evidenziano come nell’anestetizzata società borghese il predominio della mutazione tecnologica, declinato in questo caso in espliciti termini di pornografia della morte, si impone in quei territori oscuri della psiche di ciascuno, divenendo lo strumento per evadere da un piano affettivo non più sincero. La tensione alla scopofilia accomuna le due pellicole, che fanno della possibilità performativa della macchina da presa il senso della autopoiesi dei protagonisti: se vedere/rsi ripresi è assimilabile alla pulsione che dà piacere, ogni quesito esistenziale viene privato di fini escatologici, schiacciato sotto il peso di rapporti umani segnati dalla negazione delle identità.
Il piacere di riprendere coloro che si riprendono diventa per Yorgos Lanthimos un’occasione di indagine sulla crisi dell’identità del borghese contemporaneo, che, perennemente in scena, si abbandona inconsapevole alla recita dei ruoli precostituiti. Tutto per lui è noia e, per intrattenersi, non gli resta che immaginarsi “protetto” nella messa in quadro di una macchina da presa.
Scegliere il punto di vista attraverso cui narrare il proprio mondo accogliendo quello deviato delle violenze esibite non si presenta, però, come uno strumento di evasione dalla carneficina dei sentimenti, piuttosto come uno squallido palliativo per ignorare, momentaneamente, gli abissi dell’esistenza.