In occasione dell’inaugurazione, presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, della mostra Vedere e ascoltare. Appunti fotografici su L’amore buio di Gianni Fiorito, Memento – Rivista di critica cinematografica ha organizzato un incontro informale con Antonio Capuano, a cui l’evento è dedicato nel più ampio contesto del Maggio dei Monumenti 2023 Napoli in vetta, che lo vede protagonista con una retrospettiva integrale dei suoi lavori. Non una vera intervista, dunque, ma una chiacchierata con il regista sul cinema e sulla città di Napoli.
L’iniziativa è promossa dal Comune di Napoli e finanziata dalla Città Metropolitana di Napoli nell’ambito del Maggio dei Monumenti 2023 – NAPOLI IN VETTA
Realizzata da Ladoc
Con la collaborazione della Scuola di Cinema, Fotografia, Audiovisivo – Accademia di Belle Arti di Napoli e della Università degli Studi di Napoli Federico II
A cura di Armando Andria, Alessia Brandoni e Fabrizio Croce
Con la co-curatela di Anna Masecchia
Con la collaborazione di Salvatore Iervolino
LF. Il titolo della sezione dedicata al cinema – Panoramiche dall’alto, volteggiare, precipitare –, che vede Capuano protagonista in un dittico con Wim Wenders, lascia intuire che per osservare Napoli e la Napoli rappresentata nelle sue opere è necessario assumere una postura obliqua, che consenta un’osservazione da prospettive inedite. Uno sguardo quasi telescopico, dunque, il suo, necessario per comprendere come la geometria della città nella sua produzione abbia a che fare con la dimensione del minimo, del particolare.
AC. Io vivo a Napoli e racconto Napoli, non posso fare a meno di raccontarla perché qua sto. Non posso farci niente: se vedo qualcosa di interessante, lo vedo sempre con un occhio cinematografico. È una malattia, come la vuoi chiamare?, una deformazione. Non che sia diventato un tutt’uno con la camera, ma è proprio il mio occhio che cattura tutto. Non sto quasi mai vicino alla camera o al monitor, ma quello che vedi nel monitor è sempre il tuo occhio, è lui che stabilisce. Come spiegarlo? Non lo so, non so se definirlo telescopico, però. Riesco ad accorgermi dei dettagli nonostante non abbia una vista acuta. Quando sono sul set, è come se avessi un transfert; infatti, come dico sempre, pe fa’ nu film s’adda stare in forma! Non un semplice stare in palla, come si dice nel calcio, devi stare buono, se no lo perdi quello sguardo, ti fa male a’ capa e perdi quell’acutezza necessaria.
Una dimensione del minimo che è evidente già nell’incipit di Polvere di Napoli (1998): «ciò che si vede nel film, anche se a volte luccica, non è tutto oro, rassomiglia più all’argento, il più delle volte è polvere». Non può che essere un cinema della persona il suo.
Quello viene da L’oro di Napoli dello Zio (Vittorio De Sica)! Ho voluto vedere che cosa fosse rimasto di quell’oro… ci stava Totò, ci stava Sophia Loren, veramente rappresentavano l’oro di Napoli, allora vuleve vede’ di quell’oro che se n’è fatto e, secondo me, è diventato polvere. Polvere d’oro, che ormai non si distingue più dalla polvere del tufo. Io amo molto il tufo!
Con Vito e gli altri Capuano si interrogava, nel 1991, su cosa fosse il cinema per un bambino del sottoproletariato, innamorato di Rambo, un eroe invincibile. A chi si rivolge il suo cinema? Qual è la sua relazione con il pubblico?
Mica mi scelgo il pubblico! Ognuno ha il pubblico che si merita. Già quando scrivo un film, non me ne importa proprio del pubblico, nella misura in cui ho troppo rispetto per il pubblico e non mi va di arruffianarmelo. Dunque, non posso pretendere nulla.
A proposito di “ruffianeria”, ritiene che la rappresentazione visiva di Napoli oggi non corra il rischio di una stilizzazione di caratteristiche che non le appartengono del tutto? Ritiene che vi sia un’iperesposizione della città post-Gomorra?
L’immagine di Napoli è superesposta, hai ragione, però ogni sensibilità la fotografa secondo la sua possibilità. Se hai, tuttavia, qualcosa ancora da aggiungere su Napoli, fallo. Se ti interessa ancora fotografare Napoli, fotografala. Potrai dire che lo avranno già fatto un sacco di persone, ma non ti devi limitare se la città ha ancora qualcosa da raccontare, così come non c’è niente di male nel dire che non abbia più nulla da comunicare. Nun te mettere scuorno.
Il suo cinema pone al centro dell’immagine rovine e macerie architettoniche ed esistenziali, Bagnoli ne è l’esempio. A vivere in questa condizione di macerie esistenziali sono soprattutto i bambini, come se la fanciullezza divenisse immagine concreta della marginalizzazione, eternamente figli.
I bambini vivono, però, con gli altri. In Vito e gli altri l’obbiettivo si stringe su di lui, ma esistono pure gli adulti. I bambini sono i protagonisti non solo nei miei film, ma pure nella vita. Tutti siamo figli e tutti siamo padri, laddove lo diventiamo. A me piacciono i bambini, la tua condizione da bambino è la condizione in cui tu sei quasi un dio, e poi diventi un adulto, un fesso, che perde tutta la magia. Mi piace giocare con i bambini, non mi interessa parlare con i grandi, mi riesco a divertire con loro e, a tratti, mi accanisco nelle sfide con loro.
So che tiene molto alla figura di Nando Triola (attore protagonista di Vito e gli altri e di Pianese Nunzio, 14 anni a maggio). Ha avuto modo di raccontargli della rassegna?
Adesso lui è un po’ abbattuto, sta chiuso in casa da 2-3 mesi, per via degli arresti domiciliari. Io non potrei neanche andare a salutarlo. Ci sono degli avvocati d’ufficio che non se ne curano per nulla, mentre i ricchi hanno i loro avvocati e sono intoccabili. Vorrei rifare qualcosa con lui, ma si tratta di combattere con la giustizia, che invece dovrebbe favorire un progetto di lavoro di questo tipo per il suo reintegro nella società.
Vito/Nando ci aiuta a definire quella specie di limbo che unisce i sommersi e i salvati dei suoi film. Il male nelle sue opere non si propaga mai genealogicamente, ma si diffonde come una colpa. Mi viene in mente, in tal senso, l’incipit del film del 1983 di Jean-Luc Godard Prénom Carmen: «non so molto, ma so che il mondo non appartiene agli innocenti». Il merito, ma anche la complessità del suo cinema, sta proprio in questa presa di consapevolezza?
Sì, è così. L’umanità di Vito, del terrorista de Il buco in testa la senti, la vedi, sono umani come te. Anche se si tratta di criminali, non c’è nessuna distanza.
Il suo stile si esalta nel gioco paradocumentaristico, con l’uso intensivo di primi piani e panoramiche. Come nasce in fase di scrittura un suo film?
Io guardo alla realtà e quando scrivo ho già l’immagine in mente, non ho bisogno poi di chiamare il direttore della fotografia, ma questa è una cosa tutta mia, c’ho culo.
Quali sono i registi che l’hanno influenzata maggiormente?
Un sacco, ma non so quali. Dal cinema francese ai grandi russi che vedevamo qui in Accademia.
Che insegnante era Antonio Capuano quando insegnava Scenografia in Accademia? Spesso la scuola nei suoi film è un luogo ostile, d’assalto.
Ero così come quando registro, anzi ripetevo ai ragazzi: vi posso insegnare qualcosa solo perché ho qualche anno più di voi, ma voi dovete venire a frequentare perché anche io ho bisogno di imparare da voi qualcosa; comunichiamoci delle esperienze, condividiamo dei momenti di vita finché siamo insieme! Ma i professori io li detesto.
Mi ha colpito che Il buco in testa fosse dedicato ai fratelli Lumière, nella scena iniziale in cui il treno arriva alla stazione. Louis Lumière affermò: «il cinema è un’invenzione senza futuro». Dunque, qual è per lei il futuro del cinema e della sala?
Il cinema va visto continuamente, poi magari verrà assorbito totalmente dal piccolo schermo, ma penso di no. Lo immagino piuttosto come una cosa per pochi eletti, per pochi scarrafoni, per pochi isolati, per pochi viziosi. Quante volte si sarà detto che è morta la pittura, che è morta la poesia, ma poi…
Un’ultima considerazione. In Achille Tarallo, fa dire a un suo personaggio: «la felicità è una spigola al forno con il contorno». Cos’è per lei la felicità?
A volte è quella. Adesso non tanto più, prima c’era mia moglie che mi dava felicità, e ora senza di lei non sono più un uomo felice. Posso essere contento, ridere, scherzare, ma non sono più felice. La felicità è una cosa di cui non sai quando stai bene, stai bene e non sai il perché, e non te lo chiedi. Poi quando ti manca, stai una merda e non c’è nulla da fare. Posso ballare, ma la felicità è un’altra cosa: la felicità è una cosa larga, silenziosa, che vive in te senza dirtelo.