BARKING DOGS NEVER BITE: L’INDECENTE E MALATO NEL CINEMA DI BONG JOON-HO

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«Premetto a questo proposito che – e questo non lo si potrà ragionevolmente negare – l’immorale e riprovevole e malato esistono dal punto di vista della società del tutto a buon diritto. Ma allora vi sono soltanto tre possibilità a favore della tesi sostenuta: o l’indecente e malato, rappresentato da un artista, non è assolutamente più lo stesso. Oppure si dovrebbe supporre (a prescindere dai casi in cui lo si rappresenta soltanto per un’azione di contrasto, per venire accusati o consimili – casi che per di più non esistono) che l’amore di un artista per esso sia qualcosa di diverso dalla serietà reale abitualmente richiesta (e cioè, per non permettere neppure per un secondo la confusione, svolazzante come le loro cravatte, con la faciloneria e l’esaltazione degli artisti: una serietà artistica). Oppure l’indecente e malato ha anche nella vita i suoi lati buoni. Tutte e tre le affermazioni sono in un certo senso esatte».

Così lo scrittore austriaco Robert Musil, in un saggio del 1911 – inserito in La conoscenza del poeta – dal titolo L’indecente e malato nell’arte,riflette sull’atto di rappresentazione nella letteratura dell’affezione dell’animo umano in contrasto con i valori di salute e moralità. L’indecente e il malato, nell’attimo esatto in cui diventano oggetto di coscienza artistica, si manifestano come l’occasione per la riscoperta di relazioni culturali che ne “purificano” il dato semantico: l’opera rifiuta i confini geometricamente definiti tra coppie di opposti, in quanto, attraverso un processo creativo combinatorio che tenga conto del dato di realtà tanto quanto dello svuotamento di qualsivoglia tensione morale, lo scopo ultimo dell’autore è il dischiudersi delle qualità nascoste di queste categorie, che rivelano un significato nuovo del decente e del sano.

Adottando tale prospettiva interpretativa, si può affermare che il male che si propaga alla radice dei drammi esistenziali dei protagonisti della produzione di Bong Joon-ho rifugge il rischio di essere rappresentato come fenomeno estetico viziato da una polarizzazione edificante. In assenza del Bene assoluto, l’uomo cinematografico è in ginocchio per scelta o necessità, desideroso di un atto di carità che ne riscatti lo stato sociale; tuttavia, il suo volto non si rivolge mai al cielo, ma, calato in uno stato di (auto)ironica commiserazione, fa del suo vivere nascosto un’inconfutabile condanna alla marginalizzazione.

Il vizio e la perversione nell’universo filmico del regista sudcoreano sono funzionali a disvelare le ipocrisie della condotta di un’intera società al collasso, laddove il medium artistico si fa, al tempo stesso, specchio e lente di ingrandimento: la visione irrimediabilmente filtrata dalle violenze sullo schermo restituisce un’esperienza di fruizione simile ad un esercizio di décadrage, uno sguardo decentrato e obliquo sulla realtà, che rivela vie d’acceso inedite verso una nuova consapevolezza psichica. Diversamente dal dolore fisico degli antieroi di Kim Ki-duk, dal lirismo tragico degli outcast di Lee Chang-dong e dalla colpa genealogica che affligge i personaggi di Park Chan-wook, Bong Joon-ho intende rappresentare già nella sua opera prima Barking Dogs Never Bite del 2000 un’idea di innocenza impossibile da realizzare, in conflitto con il rigore culturale di una Corea incapace di garantire ascensori sociali.

La frustrazione per uno scenario lavorativo umiliante, dominato dal nepotismo e dalla corruzione, muove Yoon-ju, un giovane assistente universitario che non riesce ad ottenere una cattedra di insegnamento e, dunque, quella agiatezza economica e quella serenità interiore a cui aspira. La nevrosi con cui convive è, a suo giudizio, accentuata dall’insopportabile e costante abbaiare dei cani che vivono nelle case dell’enorme condominio dove dimora, nonostante il regolamento della struttura non consenta la presenza nelle abitazioni di alcun animale domestico. Un suo scatto d’ira provocherà l’inizio di labirintiche relazioni tra le persone del palazzo: lo studioso inizia a rapire e ad uccidere i cani in cui si imbatte senza lasciare traccia di sé, suscitando l’immediata reazione di un’assistente dell’amministratore, Hyun-man, intenerita dalle richieste d’aiuto dei condomini e sospinta dallo smodato desiderio di voler diventare famosa in televisione grazie a un gesto d’eclatante benevolenza, la quale tappezza l’intero vicinato di avvisi di smarrimento e si mette sulle tracce del misterioso killer seriale. Durante un appostamento riuscirà con il binocolo a seguire in diretta uno dei crimini, ma non sarà in grado di catturare il killer e neppure di vederne il volto.

Il tema dell’indagine inconcludente, nonché il dramma della visione inaffidabile sono due elementi ricorrenti nell’intera produzione del regista, nella quale si denuncia implicitamente la condizione degli indesiderati, degli esclusi dallo sguardo normalizzante della società coreana, ai quali è negata la dignità di individui alla luce del sole, uomini e donne che assomigliano alle creature ctonie dello schermo, sottoposti a un’erranza che non conduce verso nessun dove.

L’immagine-in-movimento espropria questi protagonisti del volto, che non è più mappa della sensibilità individuale, ma metonimia delle paure di un’intera classe media e sottoproletaria. Se già Ejzenštejn riteneva centrale all’interno della storia delle arti il primo piano, inteso come parte per il tutto, dunque capace di innescare meccanismi prelogici nell’atto creativo (cfr. A. Somaini, Ejzenštejn. Il cinema, le arti, il montaggio, 2011) – «la mia prima impressione cosciente: un primo piano» (S. M. Ejzenštejn, Memorie, 2020) –, Bong Joon-ho fa della ricorsività di questa scelta la chiave d’accesso privilegiata negli abissi della conoscenza, come nei finali memorabili di Memorie di un assassino, in cui lo sguardo in macchina di un magistrale Song Kang-ho sancisce il collasso di una missione professionale ed esistenziale volta alla cattura di un criminale senza nome, e di Madre, con la danza macabra della protagonista che segna il definitivo crollo della morale individuale di fronte all’accusa di omicidio ai danni del figlio disabile.

Pertanto, se il primo piano sancisce una nuova ambiguità di significati, costantemente oscillanti tra l’individuale e il collettivo, tra il familiare e il mostruoso, la banalità della colpa che in potenza grava su un’intera comunità può, a determinate condizioni, alterare lo stato sclerotico di questi individui nel senso di un (dis)umanesimo animale: la puzza ineliminabile che si portano addosso i reietti di Parasite è da intendersi, dunque, come la chiusura del cerchio il cui inizio è rappresentato proprio dalla violenza gratuita di questo Barking Dogs Never Bite. L’invidia verso i proprietari dei cani, motivata dal fatto che possono permettersi economicamente il mantenimento di un animale domestico, è all’origine dell’animalità rappresentata sul grande schermo: animalità che nulla ha a che fare con gli esseri non-umani, la cui rappresentazione spesso è intesa come ‘soglia’ di una libertà utopica o di una rassicurante passività antropomorfa o, per contrasto, del perturbante altro da sé, ma si riflette nella caduta degli umani verso il basso, nell’insensatezza del loro stare al mondo.

Hyun-man riesce a vedere solo la nuca, non il volto del persecutore dei cani. Tutti possono abitare la sagoma dell’immagine-in-movimento di Yoon-ju.