Tre uomini cercano di tenere fermo un cavallo. Si dimena con tutte le sue forze pur di ribellarsi, ma gli uomini, cingendogli collo e zampe con le forti braccia gli limitano i movimenti. Usando i propri corpi come catene, lo tengono ancorato al suolo. La scena più straziante di As bestas, ultimo lungometraggio di Rodrigo Sorogoyen, apre l’opera, con uno slow-motion ponderato che scaccia i fantasmi di quelli utilizzati dal vituperato Zack Snyder.
Sorogoyen con questo film abbandona il sublime equilibrio trovato con il precedente Il regno (2018) per mettere l’anima in una storia che sa di novità per la sua filmografia. La macchina a mano che vizia e plagia le sequenze de Il regno è ormai acqua passata, così come la rappresentazione altoborghese della Madrid dei primi anni 2010. Una cosa rimane, ed è il set-up storico. As Bestas infatti è ambientato nel 2013, confermando questa curiosa tendenza del regista di “evitare”, seppur di poco, lo scontro col presente.
La storia è quella di Antoine (Denis Ménochet), un agricoltore francese trapiantato in un villaggio rurale in Galizia, dove si è trasferito da qualche anno con la moglie Olga (Marina Foïs). La fede ambientalista dei coniugi li spinge a votare contro l’installazione di pale eoliche nella zona, scatenando l’ira funesta di alcuni agricoltori del posto, i quali individuavano nelle pale eoliche una svolta economica per le proprie vite. Questo astio cresce di giorno in giorno, dando vita a una spirale di orrori che culminerà nel più vile dei modi.
Già da queste poche informazioni risulta evidente il distacco dall’ultima opera di Sorogoyen, che per l’occasione mette a punto un approccio alla messa in scena radicalmente diverso. I movimenti di macchina sono cosa rara, e quando vengono adoperati non sono mai particolarmente complessi, quanto più volti ad accompagnare il soggetto dell’azione in corso, senza mai strafare.
Nel corso del film Antoine decide di documentare le malefatte che vengono commesse ai suoi danni, munendosi di una piccola telecamera digitale, abbastanza compatta da poter essere nascosta facilmente. Nel 2023 un uomo che si avvale di un video come strumento di denuncia sarebbe stato all’ordine del giorno, una videocamera nel 2013 invece sa di “pionierismo” della denuncia sociale, in un certo senso.
In As bestas sembra palese come in alcuni frangenti il regista spagnolo si sia appellato al Re del voyeurismo cinematografico: Michael Haneke. Proprio come in Benny’s video di Haneke la videocamera diventa un filtro tra la realtà oggettiva e la realtà cinematografica, quest’ultima in grado di trasformare atti apparentemente innocui in azioni amene. La videocamera diventa l’arma da fuoco al servizio di Antoine in alcune scene, esattamente come nell’iconica sequenza del bunker in Parasite di Bong Joon-ho.
Nel corso di una sequenza posta alla fine del secondo atto (un’inquadratura fissa di quasi dieci minuti) assistiamo a un intenso confronto tra Antoine e gli abitanti del villaggio, avendo modo di conoscere meglio il punto di vista degli di questi ultimi, la loro frustrazione e la loro tenera ignoranza.
Sorogoyen, da abile demiurgo, sceglie di abbandonare per un momento la prospettiva di Antoine, concedendo a quella dei suoi antagonisti di irrompere nella narrazione, alimentando il conflitto etico nelle menti degli spettatori. L’opera viene sublimata da un terzo atto perfetto, nel quale, dopo un’ellisse temporale cambia il punto di vista sulla storia, adottandone uno femminile.