GIUSEPPE M. GAUDINO, GIRO DI LUNE TRA TERRA E MARE: APPUNTI PER UNA METAFOROLOGIA

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«Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori del tempo e lo consacra rivelazione. Per questo esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo. Un uomo apparso un giorno, chi sa quando, sulle tue colline, che avesse chiesto dei salici e intrecciato un cavagno e poi fosse sparito, sarebbe il genuino e più semplice eroe incivilitore. Mitica sarebbe questa rivelazione di un’arte, quando quel gesto fosse, beninteso, di un’unicità assoluta, non avesse presente e non avesse passato, ma assurgesse a una sacrale eternità che fosse paradigma a ogni intrecciatore di salici».

Con queste parole, tratte dal capitolo Del mito, del simbolo e d’altro della raccolta miscellanea Feria d’agosto, Cesare Pavese riflette sul carattere mitico della propria poetica, tanto dal punto di vista estetico quanto antropologico. Con un parziale ma significativo smarcamento da un approccio naturalista, il fine ultimo della poesia-racconto dello scrittore piemontese è, quindi, la totale adesione a quella realtà simbolica intesa non come “eccesso” di rappresentazione, ma nei termini di una concretizzazione reale-e-fantastica dei caratteri e delle vicende dei protagonisti delle sue storie. Insistendo, inoltre, sulla differenza che intercorre tra mito e coscienza mitica, nella loro diversa concezione di oggettivizzazione dell’esperienza figurata, l’autore suggerisce come immagine chiave di questa interpretazione l’età della fanciullezza, una stagione dell’esistenza naturale e inconsapevole: se il mito riflette questa autenticità ancora non filtrata dall’esperienza della maturità, la poesia, nel suo farsi intenzionalmente, ricorre al mito senza identificarsi con questo. Il passaggio dal racconto mitico al verso non può che essere affidato, dunque, ai ricordi infantili, nella prospettiva di una riscoperta del significato autentico delle cose.

Giuseppe Mario Gaudino, nel realizzare il suo primo lungometraggio Giro di lune tra terra e mare, sembra fare propria la lezione di Pavese per costruire un racconto tumultuoso di giovani scugnizzi alle prese con una condizione esistenziale instabile. Metonimia di questa tensione verso un’improbabile affermazione individuale è la città di Pozzuoli, afflitta tra gli anni ’70 e ’80 da costanti fenomeni di bradisismo e dalle conseguenti evacuazioni. Il nòstos antieroico della famiglia Gioia, protagonista dell’opera, è un movimento di casa in casa, in cui insegue la stabilizzazione di un ordine domestico tanto materiale – l’indipendenza economica è garantita unicamente dal piccolo peschereccio paterno, il cui destino è segnato dall’abbattersi di un’epidemia di colera che ne determina il definitivo fallimento – quanto relazionale – la disgregazione dell’unità originaria è causa ed effetto al tempo stesso di uno scarto generazionale incolmabile tra genitori e figli.

I giovani del gruppo familiare sono travolti dalle loro storie private: Assuntina ha denunciato il fratello Carmine per difendere il compagno contrabbandiere ed è per questo (momentaneamente) ripudiata dalla famiglia; Tonino, l’unico ad avere l’ambizione di proseguire gli studi, è impossibilitato da due anni a sostenere gli esami all’università dal momento che ha deciso di aiutare economicamente la famiglia nei continui traslochi, causati a suo avviso dal padre, il quale non ha voluto vendere la barca consentendo a ciascuno una vita migliore; il giovanissimo Gennarino, con la sua anima inquieta e la sua «capa fresca», è sempre in giro con gli amici per «sfruculiare» qualcosa o qualcuno, aggirandosi tra le rovine delle vecchie case distrutte dai terremoti alla ricerca di vecchi pezzi da rivendere.

Proprio a quest’ultimo personaggio il regista affida il compito di interpretare la coscienza storica e culturale di un’intera comunità, sospesa in un equilibrio precario tra il passato mitico dell’area flegrea e l’angosciosa proiezione verso un futuro senza radici. «Je so’ nato a Pozzuoli. Pozzuoli è ‘na vecchia città, è speciale e curiosa assai: è speciale perché è terra vulcanica e ci sta sempre il terremoto, e forse per questo a gente nun è stata mai quieta. Ccà so’ passate chillo che appicciaje Roma, Nerone, sua mamma Agrippina, San Paolo, Gian Battista Pergolesi, Virgilio, a’ Sibilla Cumana, Tiberio, Messalina, Marco Antonio, San Gennaro; e mo’ ci vivo pure io. Nun simme tutt’importanti, o no?» afferma il protagonista in apertura dell’opera, mentre in macchina è in viaggio verso casa.

Gaudino, già da queste primissime sequenze, ricorrendo a un montaggio che alterna finzione e immagini d’archivio, attraverso il flusso di pensieri del personaggio suggerisce al suo pubblico un’esperienza di visione ritmicamente circolare, in coerenza con il titolo del film che fa della rotazione ipnotica una metafora esistenziale di un tempo personale e collettivo che si avvolge su se stesso. Gennarino, personificazione della consapevolezza del «tra» che separa e collega la terra e il mare, è un giovane la cui crescita personale si compie in uno spazio ibrido, collocato tra il simbolo e la rovina: come cratere lavico da cui sfogano le fumarole della Solfatara, è nella sua percezione concreta del palesarsi delle creature leggendarie di un passato sommerso che si realizza l’illusione visiva di questo cinema del durante.

«Non esistono le lune, ma la luna, e tutti volevano che correggessi quell’errore in quanto è più facile riconoscere che non conoscere»: il regista, giustificando così la sua scelta ortografica, lascia intendere che Giro di lune tra terra e mare è un’opera dai tratti comunicativi riconducibili ai culti misterici, come mostrano i dialoghi recitati contemporaneamente in una lingua meticcia che mescola latino, italiano e napoletano. Il protagonista non ha paura dei fantasmi che gli appaiono, ma ironicamente si relaziona con loro: la Sibilla propone vaticini che gli sembrano un incomprensibile gioco cifrato da seguire con curiosità; Maria a’ pazza, una sorta di Giovanna d’Arco puteolana, è da lui osservata nei suoi gesti macchiettistici; il martire cristiano Artema gli consente una riflessione sull’uccidere per futili motivi.

La metafora mitica/mistica proposta da Gaudino negli intermezzi narrativi dell’opera non si limita, dunque, a una scelta di carattere estetico finalizzata a passare in rassegna personaggi illustri dell’antichità propri di questa area geografica, ma ha l’intento di suggerire allo spettatore una via di accesso alla realtà “altra”, esprimibile unicamente attraverso una comunicazione figurata. Una prospettiva di ricerca di significati assimilabile a quella del filosofo e antropologo tedesco Hans Blumenberg, che in Paradigmi per una metaforologia analizza il pensiero occidentale mediante le espressioni metaforiche, componente essenziale dei processi di strutturazione del mondo, e presenta una distinzione tra pensieri logici e pensieri che per esprimersi necessitano della metafora, in quanto sprovvisti di ulteriore metodo di rappresentazione.

Nella ricostruzione dell’archeologia dei rapporti che legano coscienza storica e tensione filosofico-esistenziale, la metaforologia “appuntata” dal regista in quest’opera indica l’esperienza concreta di un ancòra-presente di Gennarino come unità di misura semantica di un fallimento di un’intera comunità. La forza immaginativa del protagonista precede il pensiero stesso, aggiungendo, per inevitabile rivelazione più che per eccesso di sentire, una traccia di realtà «bildlich e vordenklich», «in senso figurato e pensieroso».

Le cose umane, rovinate dal sisma imponderabile, nel loro atomizzarsi rivelano il loro significato essenziale. Nella decadenza di un paese di macerie la macchina da presa, assimilandosi al punto di vista del ragazzo, con compassione creaturale ne cattura il carattere elegiaco: «qualcosa è succies’ chillu juorno, so’ sagliuto ncopp’o palazzo ‘e nu viecchio amico mio, e m’è venuta na cosa dint ‘o stommaco. Nun era famme, è che nun me venevano ‘e parole juste ‘mbocca. Nun ‘e truvavo, ‘e cumpagne mieje nun me sentevano. Da chillu punto se capiva benissimo che se steva arruvinanno pe’ sempre ‘a mia città» dice fra sé e sé Gennarino, consapevole adesso di dover lasciare per sempre il rione dove è cresciuto per andare ad abitare in più solidi ma squallidi edifici di cemento.

Nel momento dell’addio a Pozzuoli, il presente narrativo conflagra su se stesso, stabilendo un ordine nuovo dove il confine in perenne mutamento tra storia e parastoria mitica assomiglia sempre di più alla polvere lavica e alle onde del mare.

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