WIM WENDERS, ALICE NELLE CITTÀ: L’IMMAGINE COME ARCHEOLOGIA DELLA PAROLA

Autore:

Condividi su:

In Estetica e Romanzo, una raccolta postuma di saggi scritti tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento, il filosofo e critico letterario russo Michail Bachtin, nel definire le basi teoriche di una nuova scienza della letteratura, insiste sul principio del cronotopo come categoria della forma e del contenuto del romanzo. Influenzato dal dialogo teorico attorno al concetto di spazio-tempo, che è molto diffuso in quella stagione culturale e che comporta l’erosione dei principi fondamentali della fisica classica, lo studioso avanza la propria definizione volta al superamento del binomio apparentemente antitetico tra tempo chrono-logico e tempo psichico, intuendo che nell’unità di misura cronotipica si sintetizza lo spazio di interazioni possibili tra uomo e ambiente, vale a dire una dimensione relazionale diffusa e al tempo stesso qualitativamente definita come interstizio culturale concreto tra il dominio dell’oggettività e quello della soggettività. L’applicazione di questo concetto, vero e proprio grimaldello per accedere ad una coscienza del sé e ad una conoscenza del mondo più complete, comporta l’accettazione di un dialogo interiore continuo in cui si riscopre, legittimandolo, l’«interlocutore meritato» presente in ciascuno di noi.

Di questa postura (auto)narrativa obliqua tra astrazione e realtà – «noi viviamo nel cronotopo […], pietra d’inciampo» afferma Bachtin nel saggio, citando una delle tesi dello psico-fisiologo Aleksej Uchtomskij – fa esperienza il melanconico protagonista del film del 1974 di Wim Wenders Alice nelle città, il cui percorso di trasformazione a livello emotivo è vincolato proprio all’acquisizione di un codice comunicativo condiviso, uno sguardo sul mondo che tenga conto dell’altro.

Philip, il protagonista, è un giornalista tedesco tormentato, a cui è stato chiesto di redigere un pezzo sui paesaggi americani, ma finisce per consegnare al proprio caporedattore un mucchio di polaroid prive di una storia da raccontare. Lo squallore delle province del continente, nella loro piatta ripetitività di strade e luci al neon, gli danno la sensazione di perdere i riferimenti spaziali e cronologici, come se fosse stato gettato in uno stato di trance ipnotico dall’incerta causa: gli Stati Uniti gli appaiono come un serbatoio di immagini-pubblicità «disgustose e malaticce», che spalancano voragini di «fiero disprezzo» in grado di divorare un intero universo di relazioni sociali.

Se lo sfondo paesaggistico e massmediale che attraversa si fa myse en abime della propria condizione esistenziale, questa anestesia del sentire inevitabilmente si riflette nel modo in cui intende la propria professione e la propria passione per la fotografia. «Scattare fotografie. Eliminare tutto quello che non si sopporta. Parlare con sé stessi è più un ascoltarsi» si ripete Philip come un mantra, mentre è alla guida della sua auto. L’immagine, non come imitazione della realtà ma come supplemento semantico di questa, in grado, cioè, di correggere l’asimmetria della vita attraverso ritagli e marginalizzazioni, risponde a un tempo narrativo antecedente a quello della parola, perciò è del tutto incapace di restituire le ragioni del dolore personale, è più prossima a un dialogo interiore, in cui è possibile ascoltarsi realmente senza rinunce. La perdita di identità che affligge il protagonista, che si aggrappa ai suoi scatti come prove del suo esser(ci), si accompagna a quella «paura della paura» di stare al mondo di cui confessa di soffrire: l’ansia di controllo della sua fragile esistenza segue il processo chimico di sviluppo delle polaroid, in una metafisica del buio piegata dall’urgenza di presentificazione dei fasci di luce catturati dal suo sguardo.

L’immagine-tempo del cinema di Wenders, che ha il merito di rappresentare la natura fuggevole del tempo inteso come durata, sembra esaltarsi proprio nella ricomposizione chiaroscurale dei pensieri e delle percezioni dei protagonisti che la popolano, però senza rarefarsi in una tensione esclusivamente trascendentale.

Se «fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona o di un’altra cosa» (cfr. S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, 1977), il memento mori dello scatto non può che preservare lo stato puramente materico dell’oggetto rinviandolo ad un tempo altro, sospeso tra il mutamento e la permanenza. «Piango perché è così straordinariamente bello ed io non riesco ad afferrarlo, so che è soltanto una questione di chiaroscuri, ma guardo questo e tutto ciò che vedo è niente. […] In natura è tutto un grande chiaroscuro; l’unico modo che hai per dipingere questo è accostare le zone chiare a quelle scure, altrimenti non è niente. Tutto ciò che vedi è chiaro e scuro, fatto di ombre e luci: vedi, l’onda è la luce e lo spazio dei cavalloni è il buio, ed è questo che dà la forma» fa dire successivamente il regista a una delle protagoniste del film del 1982 Lo stato delle cose, mentre dall’alto prova a immortalare un paesaggio costiero. Questa tensione meta-rappresentativa della realtà, nel momento esatto in cui condanna il linguaggio ad uno stato di radicale scacco, ne celebra l’estensione verso gli altri organi di senso, in un dialogo mai interrotto verso l’altro e il proprio mondo interiore.

Philip acquisisce questa consapevolezza solo grazie all’incontro con la piccola Alice, che entra nella sua vita dalle porte a vetro girevoli dell’aeroporto newyorkese da cui entrambi stanno per imbarcarsi. Il moto uniforme del tempo dell’oggettività a tutti i costi – il roadtrip inconcludente del protagonista alla ricerca di una storia da raccontare – diventa una dimensione psichica che si avvolge su sé stessa verso la riscoperta di una sensibilità castrata. La bambina invita inconsapevolmente l’uomo ad un ideale girotondo emotivo, in cui la parola è un gioco intraducibile: lei padroneggia il nederlandese mentre lui l’inglese, e così si completano nella loro esperienza di vita intessuta di frontiere geografiche e relazionali.

Durante il viaggio che assieme percorrono verso la casa della nonna di lei in Germania, Alice scatta al suo amico adulto una fotografia per mostrargli «chi davvero è», in un gesto compensativo in grado di restituirgli, dall’esterno, l’immagine commossa della sua identità ritrovata. L’arte rivela il già-da-sempre-stato di ciascuno di noi, svincolando il soggetto dall’angoscia del perpetuo divenire e favorendo, invece, un’esperienza di vita figlia di un tempo aionico (da αἰών, «sempre essente», è il tempo assoluto della durata, opposto di χρόνος, il tempo come successione di eventi): se «Aion è il regno di un fanciullo» (Eraclito, DK 22 B 52), non può che essere questa bambina l’artefice del rovesciamento di stato di Philip, in grado di “vedersi” ora realmente attraverso gli occhi di lei, lasciandosi proteggere dal suo sguardo colmo di amore puro.

Appare quindi evidente come Alice nelle città non possa essere ridotto alla definizione di un road-movie d’autore, in quanto il cronotopo della strada non è riconducibile al clichè formale del movimento avventuroso, né tantomeno a quella di un viaggio sentimentale. Wenders sceglie come inquadratura conclusiva dell’opera una ripresa dall’alto in cui, nel vagone della carrozza in cui viaggiano verso Monaco di Baviera, i due protagonisti si scambiano un ultimo saluto. Philip confessa alla bambina che una volta a casa riuscirà finalmente a concludere la sua storia per il giornale. Alice, alla domanda sul suo prossimo futuro, invece, tace.

«Ces fleurs entre les rails, dans le vent confus des voyages», «questi fiori fra i binari, nel vento confuso dei viaggi»: Jean-Luc Godard aprirà con questi versi di Rainer Maria Rilke il terzo capitolo del suo ultimo film del 2018 Le livre d’image, dedicato al topos del treno nell’immaginario cinematografico, equiparando l’avanzare con le ruote di questo mezzo di trasporto al movimento delle bobine di pellicola durante le riprese. Il “libro dell’immagine” di Wenders, fatto di uomini e donne ai confini dell’esistenza e in perenne movimento verso se stessi, conferisce a questa “confusione” di destini il proprio tratto distintivo: è il «metodo del TRA che scongiura ogni cinema dell’UNO» (G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, 1985), vale a dire rendere visibile lo spazio relazionale tra le parole e le cose, tra la percezione e il linguaggio.

Articoli collegati