PIER PAOLO PASOLINI, TEOREMA: FLUTTUAZIONI SEMANTICHE DEL DIONISISMO

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«Io non riesco più a riconoscere me stesso, perché quello che mi faceva uguale agli altri è distrutto» confessa disperato il giovane Pietro al misterioso uomo che con la sua purezza ha da qualche tempo sconvolto la sua esistenza e quella della sua intera famiglia, appartenente alla società alto-borghese milanese.

Con Teorema (1968) Pasolini riflette su questa figura messianica, inserendola in una prospettiva narrativa tragica in grado di promuovere una metabolé, un inatteso rovesciamento di stato dalla non conoscenza alla conoscenza della verità su se stessi. Il suo arrivo trasforma, infatti, gli stereotipati rapporti umani di chi abita la villa dove si svolge l’intera vicenda, sottoponendoli a una mostruosa cratofanìa: l’ospite enfatizza i tratti disforici dell’Io monolitico borghese, condannando chi incontra ad una inquieta accettazione delle parti rimosse della propria identità umiliata. L’equilibrio della famiglia è rivelato del tutto posticcio dal protagonista che, dopo aver mostrato ai componenti familiari il giogo asfissiante della loro inautenticità, li abbandona alla disperazione dell’impossibilità di essere autentici.

Questo giovane messia è il motore immobile della vicenda, poiché riesce a suscitare un amore per la prima volta sincero, privo di ogni finalità utilitaristica, in tutti quelli con cui stabilisce una relazione, permettendo loro di attuare una sospensione dei vizi che li imprigionano in esistenze ridicole; tuttavia, questa rivelazione non resisterà a lungo e, quando il giovane scomparirà improvvisamente, la famiglia abbandonerà il progetto dell’evoluzione intravista. Nessuno dei personaggi sarà in grado, infatti, di compiere una transizione positiva, perché il peso della mediocrità rivelata frena ogni slancio volitivo: Odetta cadrà in un’irrimediabile catatonia; il fratello Pietro cercherà di sublimare con l’arte la propria diversità sessuale sofferta; la madre dei due, Lucia, si sottrarrà ai valori borghesi gettandosi tra le braccia di sconosciuti; il capofamiglia Paolo si spoglierà francescanamente dei suoi averi donando la sua fabbrica agli operai.

Nella prospettiva di un’analisi di mitocritica transmdediale, in cui «la comparazione […] deve valorizzare la creatività della ricezione e il suo effetto retroattivo sull’originale» (M. Fusillo), non risulta errato riconoscere nella crisi psico-fisica dei personaggi del film una ripresa degli stati di trance di cui fanno esperienza le Baccanti di Euripide. Pur non proponendo un esplicito richiamo al dionisismo, Pasolini, come testimoniato da una lettera a Silvana Mangano pubblicata sul Tempo, dimostra di apprezzare l’episodio mitico, reinterpretando il potenziale metamorfico del dio nei termini di una parousìa di un’intera classe sociale, «fondata sulla ragione e il buon senso – che sono il contrario di Dioniso, cioè dell’irrazionalità». La follia cupa ed estatica dei rituali imposti dalla divinità nella tragedia si esprime nei termini di un’esperienza regressiva, in cui «non è saggezza il sapere», con un dissolvimento dell’identità che insegue due opposte direttrici, quelle della rinascita e dell’annientamento. Nel segno dell’annullamento delle forme sociali, le donne tebane a contatto con il divino regrediscono ad uno stato primordiale che le induce a fare «cose tremende»: si vestono di pelli animali, allattano gazzelle e cuccioli di lupo e cacciano ferinamente, ricreando una microsocietà allucinata. Liberando e possedendo al tempo stesso le anime – il fedele è una creatura che fa esperienza di una vita dominata dall’enthousiasmòs – il bifrontismo dionisiaco si manifesta nel dominio del corpo, che nelle sue incontrollabili pulsioni e nella sua nuova plasticità sprigiona con pietà e terrore il mostruoso piacere tragico.

L’ossessiva fisicità sembra essere la vera protagonista di Teorema, dove il sesso rappresenta il mezzo che consente la rivelazione del sacro e il recupero della pura identità originaria. Questa chiave di lettura è confermata dalla sequenza in cui Pietro, in compagnia del giovane straniero, sfoglia un volume della produzione dell’artista Francis Bacon, soffermandosi sulle opere dall’evidente valore metaforico Tre studi per figure alla base di una Crocifissione (1944) e Two Figures (1953): la macchina da presa indugia, nel primo caso, sui corpi deformati dei soggetti religiosi ritratti come privati della loro sacralità, mentre, nel secondo caso, su un rapporto omosessuale dai tratti violenti, per evidenziare ulteriormente la forza travolgente del misterioso visitatore.

Il Requiem in re minore K. 626 di Mozart scandisce queste fasi del collasso del nuovo mondo che si è rivelato alla famiglia, in un commento sonoro al giudizio universale e all’essere sotto giudizio di ciascuno dei componenti.

Il film si conclude con il grido animalesco di Paolo, che risuona in una landa desolata: la venuta dell’angelo dell’apocalisse nel mondo borghese lascia gli uomini disperatamente intenti ad urlare versi che non hanno più significato.

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