È paradossale pensare che un film incentrato sulla vita di un musicista abbia solamente cinque (!) momenti di musica. Quando si pensa ad un lungometraggio sulla figura di Kurt Cobain, ex leader dei Nirvana nonché rappresentante del movimento grunge e di intere generazioni di adolescenti, ci si aspetta un film “chiassoso”, con tripudi di batterie, assoli di bassi e chitarre, eccitate folle di fan che si accalcano alle transenne di un concerto.
Invece no: Last Days è completamente l’opposto dello scenario appena ipotizzato. Si tratta di un film che vuole trasmettere la quiete e la calma che (forse) Cobain è riuscito ad avere solo dopo aver compiuto il suo gesto estremo. Realtà e finzione si mescolano in Last Days, un’opera di Gus Van Sant del 2005, che ha debuttato alla 58esima Mostra del Cinema di Cannes e che si ispira agli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain. Il chitarrista, prima di suicidarsi il 5 aprile 1994, lasciò una lettera alla moglie nella quale spiegava i motivi del suicidio. Dalle sue parole emerge il tormento e la fragilità dell’uomo e del musicista. La pellicola rientra all’interno di un’ideale “trilogia della morte” composta da questa ed altre due produzioni del regista: Gerry e Elephant.
Blake – interpretato da Michael Pitt – un musicista di successo, è il protagonista della storia. Un personaggio completamente perso, un’anima che non vive più nel suo corpo. Afflitto da una profonda depressione e alla ricerca di risposte a domande esistenziali, vaga da una stanza ad un’altra della villa nella quale dimora insieme ai suoi amici, e nel bosco che la circonda. Un film che scorre lento – così come i suoi piani sequenza – come se volesse sottolineare la perdita d’identità che attraversa il protagonista. Singolare la scelta di impostare il film con un formato quasi quadrato (1,33:1) che, alcune volte, rende anche distorte le fotografie del film, ma riesce a concentrare tutta l’attenzione sulla scena. Ciò che invece può addurre in confusione lo spettatore è il montaggio dei diversi piani temporali, che non permettono di comprendere la sequenzialità delle scene.
All’assenza di musica, si associa un preponderante silenzio che ha un peso massiccio nella narrazione: i dialoghi, infatti, sono pochi – soprattutto quelli che coinvolgono direttamente Blake – e risultano essere molto confuse le frasi che il protagonista rivolge a sé stesso. Ed a proposito di musica e lentezza, esattamente a metà film (a circa 45 minuti dall’inizio) c’è una delle scene più intense del film. Blake si chiude nel suo studio di registrazione e man mano inizia a costruire una canzone. Registra pian piano diversi elementi musicali, li somma l’uno all’altro, partendo da una base ritmata di chitarra, aggiungendovi poi un assolo, ed ancora una base di basso, un accompagnamento ritmico di batteria e la sua voce. Una voce strozzata, roca, disperata, che chiede aiuto. Non è una semplice canzone: è un vero e proprio canto dello smarrimento. Man mano che il brano cresce e si amplifica, la telecamera si allontana sempre di più dalla sala di registrazione, per restituirci un paesaggio esterno, di cui gode come se lo spettatore fosse un voyeur.
Un altro momento di profonda solitudine e di dolore, esaltato da un’inquadratura fissa, si ha quando Blake, in piena notte, viene lasciato solo dai suoi amici nello studio di registrazione. In quel momento imbraccia la chitarra ed inizia a suonare Death to Birth dei Pagoda, band dello stesso Michael Pitt: “Dalla morte alla nascita” è il titolo di questo brano che suona come un tragico presagio. Un brano che trasmette l’inquietudine di una persona conscia di essere giunta all’apice della sua distruzione. Solo e stanco, con la sua chitarra, la sua voce e le sue parole.
Parole stanche e distorte che cercano di vivere e che, nel caso della musica dei Nirvana, risuonano tutt’oggi.