CLAUDE LELOUCH, UN HOMME ET UNE FEMME: LA VITA È L’ARTE DELL’INCONTRO

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«Ti è piaciuta la favola?» «No, perché è troppo triste». Anne è in compagnia della figlia nel porto di Deauville e ha da poco finito di raccontarle la storia di Cappuccetto Rosso nel tentativo di strapparle un sorriso. L’inattesa risposta della piccola per nulla incuriosita dalla vicenda del lupo cattivo, con cui si apre l’opera di Claude Lelouch, miglior film al 19° Festival di Cannes, abbandona lo spettatore senza preavviso sulla soglia. Il “c’era una volta” è, infatti, svuotato del suo stesso potenziale evocativo ed è ridotto a mero pretesto narrativo di una storia inconcludente: il tono di Un Homme et une Femme non è quello proprio dei racconti di formazione, il cui orizzonte di attesa viene rispettato con l’inserimento di un epilogo rassicurante, ma risponde all’esigenza di raccontare una fiaba per adulti goffamente incapaci di esternare il proprio dolore esistenziale.

Il carattere solo apparentemente naive del film, che a tratti gioca con la forma leggera del fotoromanzo, piuttosto che attentare alla verosimiglianza del discorso amoroso su cui si regge l’intera vicenda, restituisce al pubblico un cinema della consapevolezza, fondato sulla problematizzazione della interdipendenza tra finzione/funzione artistica e vita. Se «quando una cosa è poco seria si dice che è cinema», come afferma con ironia in relazione all’inclinazione dolce del suo corteggiamento il personaggio di Jean-Louis ad Anne, giovane aiutoregista, Lelouch non rinuncia però a ridiscutere in una prospettiva metanarrativa il dispositivo, che non si riduce a semplice spazio descrittivo dinanzi all’imbarazzo delicato dei due amanti, ma acquista pienezza semantica nel suo realizzarsi come pastiche di codici espressivi, il cui dominio si impone in maniera proporzionale alla crescita della tensione fra i protagonisti.

Non è un caso, quindi, che i personaggi interpretati da Jean-Louis Trintignant e Anouk Aimée, i cui nomi si fanno calchi cinematografici dei loro doppi sullo schermo, si conoscano per la prima volta all’esterno del collegio dove studiano i rispettivi figli, scelta che suggerisce l’irrinunciabilità ad imparare nuovamente ad amare da parte di questi bambini-adulti incuriositi e al tempo stesso sgomenti al manifestarsi del proprio destino: lui pilota automobilistico, passionale e sicuro dei suoi sentimenti, ha alle spalle un matrimonio finito rovinosamente con il suicidio della moglie a seguito di una crisi di nervi scatenata da un suo grave incidente durante una gara; lei, nonostante alcuni slanci tesi al conseguimento di una felicità sempre agognata, è irriducibilmente vincolata ancora al suo passato, nel ricordo dell’armonia di un legame coniugale nato e conclusosi sul set, con un incidente che è costato la vita al marito stuntman.

La scansione temporale dell’innamoramento non segue un andamento lineare, ma ha un ritmo languido e altalenante, scandito da rinunce e ripensamenti, che grazie a un montaggio alternato, in cui sono sovrapposti i traumi del passato alle nuove possibilità del presente, esalta le complicazioni del rapporto.

Inoltre, la tavolozza dei colori utilizzata in Un Homme et une Femme per descrivere questi raccordi continui oscilla suggestivamente dal blu marino dell’ansia di conquista di Jean-Luis, in una sorta di spazializzazione del sentimento che coinvolge anche la città costiera di Deauville, al seppia anestetizzante del ricordo ancora vivo delle precedenti relazioni. L’insistenza di questo avvicendamento cromatico libera nella sua ricorsività fenomenica il dato del colore da una stringente connotazione figurativa, manifestandosi come elemento drammaturgico autonomo (cfr. S. M. Ejzenstejn, Il colore, 1982): questa storia di vite comuni è registrata sulla pellicola nella sua caratterizzazione visiva di limbo di eterni fantasmi filmici, in uno spazio finzionale che non può che ricordare il cinema degli inizi e le pratiche di colorazione dell’imbibizione e del viraggio.

Le contraddizioni dell’amore rivelato e subito perso sfuggono costantemente al controllo dei protagonisti, condannati così alla fatica di una corsa verso l’altro – Jean-Luis, senza dormire, viaggia di notte in macchina da Montecarlo a Parigi per fare una sorpresa alla donna, dopo che lei gli ha rivelato il suo amore con un telegramma – e verso se stessi.

L’elastico emotivo che lega i due in un alternarsi di tristezza/allegria non può che riflettersi anche nelle scelte sonore adottate da Lelouch, che alterna Samba da benção di Vinícius de Moraes e Baden Powell (La vita, amico, è l’arte dell’incontro / Malgrado ci siano tanti disaccordi nella vita / C’è sempre per te una donna in attesa) all’ossessivo Errinerungsmotive, «motivo della memoria», delle musiche strumentali composte da Francis Lai.

Scegliere cosa ricordare genera incomprensioni. Lo scoprono i due nella stanza d’albergo dove si incontrano in una delle sequenze conclusive del film: il desiderio profondo che li aveva condotti lì finisce per essere vinto dall’impossibilità di Anne di dimenticare il proprio passato, scoprendosi non ancora pronta per gettarsi in una nuova storia. La presenza del trauma del distacco mai realmente elaborato del tutto è catturato chirurgicamente dalla macchina da presa di Lelouch, che, soffermandosi sul corpo pietrificato dall’angoscia di lei, con compassione creaturale dipinge quello nudo di lui nel momento in cui comprende la porosità del suo destino. Il simbolismo della pelle/pellicula illuminata di luce non può che farci accostare questa coppia a quella degli amanti impossibili di Hiroshima Mon Amour di Alain Resnais, in cui la pelle “atomizzata” si fa soglia e confine della loro esperienza esistenziale di dissociazione, in quella Nevers-never mai raggiunta e per questo per sempre attesa.

«Ci sono certe domeniche che iniziano bene e finiscono male… è incredibile, non è possibile impedirsi di essere felici! Se dovessi ricominciare, che altro farei? Che potrei fare di diverso? Vederla come un amico per mesi e mesi, a furia di comportarsi come amici si diventa veramente amici» si ripete ossessivamente Jean-Louis, in un lungo soliloquio in cui si riscopre di nuovo solo nella sua macchina. L’uomo non appare più in grado di sottoporre a controllo le proprie emozioni, come nelle prime immagini del film, quando la passione per la corsa e per un’esistenza vissuta “fino all’ultimo respiro” lo rendeva somaticamente simile al Jean Paul Belmondo di À bout de souffle, perennemente sospeso «tra il dolore e il nulla».

La sua inguaribile determinazione, tuttavia, lo porterà a mettersi di nuovo in moto per raggiungere Anne, forse per un ultimo saluto migliore. Il regista inserisce, poco prima del finale, una reverie a cui si abbandonano entrambi, mentre la condensa sui vetri li proietta verso un altrove immaginario, in cui si ritroveranno a dialogare piacevolmente in un ristorante.

Questa ricostruzione onirica spinge Jean-Luis a far valere le sue abilità automobilistiche per arrivare alla stazione di Parigi in tempo per incontrare Anne: l’assoluta coincidenza del tempo interno con il tempo esterno dei protagonisti proprio sul finale di questa “favola triste” gli consentirà di lasciare la donna con un abbraccio mai sciolto, in un gesto di comprensione e di perdono delle sue difficoltà.

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