DECISION TO LEAVE DI PARK CHAN-WOOK, OVVERO LA VITA DELLE COSE

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«Lo devo dire a parole o le faccio vedere le immagini?» risponde il detective Hae-Jun alla misteriosa vedova, indagata per l’omicidio del marito Seo-Rae. La donna appare, inspiegabilmente, più interessata ai dettagli relativi al ritrovamento del corpo, rinvenuto alle pendici di una montagna, che provata per la notizia della perdita.

Già da queste prime sequenze del film lo spettatore intuisce come l’annientamento del campo psichico dei protagonisti, tratto ricorrente nelle opere di Park Chan-wook, si riveli in Decision to Leave nei termini di un rapporto di dipendenza/ossessione nei confronti delle forme abiotiche che ne consumano i destini: l’impronunciabilità della colpevolezza della donna nonché la morbosità del desiderio inappagato dell’uomo di legarsi realmente a lei seguono la comune direttrice del sabotaggio delle prove in esame e dell’insabbiamento di registrazioni schiaccianti.

Foto, radiografie, binocolo, traduttore automatico dal cinese al coreano, macchina della verità, collirio, contapassi, film melodrammatici orientali. La manomissione mentale degli organi di senso dei due personaggi è solo l’effetto di un rigore drammaturgico che vede le cose come cause delle disfunzioni violente determinanti l’ineluttabile erosione interiore: non si tratta banalmente di oggetti o feticci, ma elementi con cui queste individualità entrano completamente in relazione, mobilitandosi in loro difesa come a voler tenere sotto controllo a tutti i costi le tessere di un puzzle esistenziale inconcludente. «Distrutto: consumarsi fisicamente o spiritualmente» è il risultato della ricerca in internet che la straniera fa per comprendere il disperato commiato, momentaneo, dell’amato.

Nel suo saggio del 2011 dal titolo La vita delle cose, il filosofo Remo Bodei, approfondendo il rapporto implicito tra soggetto razionale e oggetto conosciuto nella direzione di un ribaltamento di senso che risemantizzi le cose in relazione all’umano, introduce il concetto di stilleven, vita immobile, recuperandolo dalle raffigurazioni di natura morta esaltate dai pittori olandesi del Seicento. Comprendere il significato di questa metafora artistica, la cui carica simbolica è da ricercarsi proprio nella problematizzazione del ruolo centrale di questi soggetti non-umani, risulta determinante per poter analizzare Decision to leave nei termini di un’opera essenzialmente materica: il dominio di sguardi sclerotizzati dei protagonisti è piegato al centro dell’immagine dalla forza attrattiva di cose  «sospese nel tempo e messe, per quanto è possibile, al riparo dall’oblio, dal decadimento e dalla morte», e quindi per questo motori (im)mobilissimi dell’intera vicenda.

Anche le ultime battute del film, poco prima del suicidio in mare di Seo-Rae, sono veicolate da un messaggio vocale precedentemente registrato sul telefono, cosa/causa che spalanca la voragine entro cui sprofonderanno le esistenze dei personaggi: «nel momento in cui il tuo amore è finito, il mio amore è iniziato» confessa la ragazza disarmata nei confronti di un epilogo annunciato. Innescando così nuovamente i meccanismi di un legame affettivo morboso che avevano precedentemente inibito Hae-Jun dalla piena riuscita della propria professione, viziata da un’inguaribile depressione, il corpo della donna, sparito tra le onde di una marea crescente, assurgerà al ruolo, mai più appagato e quindi per sempre desiderabile, di ipotetica colpevole.

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