LO ZOO DI VENERE, DI PETER GREENAWAY: GLORIA E VITA ALLA “VECCHIA” CARNE 

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Lo slogan di David Cronenberg può introdurre un discorso – necessariamente ossessivo – sul corpo. Peter Greenaway prosegue un’analisi iniziata due anni prima con Videodrome. Non è necessario, però, che le idee alla base delle due pellicole dialoghino. È l’attenzione rivolta a riflettere sulla carne a funzionare da collante, non serve sapere se le due opere – dal principio – siano state concepite con gli stessi presupposti. Sia Cronenberg che Greenaway (e questo è certo) si sono soffermarti a ragionare – addentrandosi nei meandri dell’orrore – sulle mutazioni dei corpi e sulle degenerazioni psico-fisiche come conseguenze automatiche e spontanee delle mutazioni sociali. 

È il come “si dà vita ad una vita” ad essere il principio dell’ossessione di Greenaway, che ne Lo zoo di Venere racconta di una complessa vicenda di due gemelli (e della loro complementarietà, elemento essenziale all’interno della narrazione) etologi rimasti vedovi che, motivati dall’odio verso chi ha causato l’incidente, vengono pervasi da un’improvvisa passione irrefrenabile e da un desiderio di completarsi. Alba, infatti, diventa l’oggetto del loro tormento. Ed è lei che troverà il modo di ricucirli insieme. Da subito, quello che sostiene il racconto, è il bisogno di spiegare la morte partendo proprio dalla vita, analizzandone ogni aspetto visibile e invisibile; che cosa la genera, come la si perde, a quante parti di sé si può rinunciare senza smettere di riconoscersi. Probabilmente, è un modo (senz’altro) alternativo per elaborare il lutto, accentuato dalla necessità di Greenaway di aggredire – toccando con mano – ogni minimo aspetto del suo delirio. Il corpo, infatti, viene esposto, ferito, mutilato. Ci si serve delle sue funzionalità attraverso continue violenze, perpetrate con una perversa giustificazione di metabolizzare la perdita. 

“Lavorò sodo sul proprio corpo, un giorno dopo l’altro. C’erano sempre stati fisici da raggiungere che superavano precedenti stati estremi. Sapeva portare una cosa a estremi insopportabili se misurati in termini di respirazione o forza o durata o volontà, e poi decidere di superarli, quei limiti”, scrive Don DeLillo in Body Art, analizzando il lavoro che fa il corpo. Mettendo per iscritto l’arte, il sesso, l’aggressività, esplorando identità profonde. Liberandosi anche, in modo paradossale, del corpo, quanto meno del proprio, se non altro. E partendo da qui si potrebbe anche introdurre una disamina sul significato del rispetto all’io; sulla prospettiva che Paul Ricoeur sviluppa nel Sé come un altro, sottolineando il legame tra il “proprio corpo” e quello che l’io “vive, soffre, comanda”. Una discussione filosofica complessa, che affronta quel mistero del dualismo dell’esistenza all’interno stesso dell’unità vissuta: come un conflitto, un legame polemico, un’indipendenza dipendente.  

Greenaway dedica la stessa attenzione totale a questo binomio, tentando di indagare il corpo e ridisegnarlo. Nell’idea espressa dal suo Cinema c’è un sadico intento di rendere il pubblico sazio al punto da non poterne più; ci sono una sovrabbondanza di colori (soprattutto nei quadri che il regista, in quanto pittore, realizza), idee, deliri, riferimenti culturali. Ci sono la seduzione e il desiderio (mai appagato), il dolore, la simmetria. Per esistere bisogna avere un corpo e una carne. Eppure, più ci si sente padroni di entrambi, più sembra di essere lontani dalla realtà. 

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