IO LA CONOSCEVO BENE: L’APOCALISSE PSICOPATOLOGICA DI ANTONIO PIETRANGELI

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Adriana abbassa la coperta dal volto. Il tessuto è ricamato con degli intagli che non le permettono di nascondersi davvero: dai fori osserva l’uomo con cui ha passato la notte, uno scrittore in carriera, che la intrattiene nella spietata descrizione di una tale Milena, possibile protagonista di un futuro racconto. Il gioco di sostituzioni le appare subito evidente, riconoscendosi nelle caratteristiche di quell’alter ego narrativo, «una specie di deficiente», e si insinua in lei il pensiero corrosivo di non avere il controllo della propria identità.

La ragazza, interpretata magistralmente da una giovanissima Stefania Sandrelli, si è appena affacciata alla vita e al mondo, ma non ha ancora sviluppato una coscienza individuale, definita e costretta com’è da sguardi tutti maschili, che mortificano la sua sensibilità. Abituata a essere guardata più che a guardare se stessa, conduce un’esistenza circondata da specchi, che le restituiscono un’immagine distorta e parziale della realtà.

Lo spettatore, che conosce poco del vissuto di Adriana, si lascia travolgere dal suo movimento vorticoso da una relazione all’altra, mentre segue l’illusione di una realizzazione personale nel mondo dello spettacolo. Il montaggio ellittico suggerisce al pubblico, infatti, un’idea approssimativa delle ragioni che determinano i comportamenti e le passioni di Adriana, che si propone come motore mobilissimo della vicenda rappresentata, ma inconsapevole dei mezzi necessari per proteggersi dalle delusioni quotidiane. Appare evidente, quindi, come la storia raccontata da Antonio Pietrangeli non rientri affatto nella categoria del genere di “formazione”, come potrebbe far pensare la trama che ha come protagonista una giovinetta che si sposta da un contesto rurale in città per costruire la propria identità, piuttosto si sviluppi come un’indagine introspettiva, che si concentra sulla febbrile acquisizione del proprio Io frantumato da parte della protagonista.

L’universo che la circonda obbedisce ad una legge di gravità che lo àncora alla realtà, che lei sembra non conoscere se non nel tragico epilogo della sua esistenza. La giovane sembra un personaggio chagalliano, sempre sospesa a mezz’aria, aggrappata a sogni in cui non crede veramente, a uomini che non sanno amare né comunicare. Spesso si lamenta che i suoi partner non la cerchino al telefono o, se lo fanno, è solo per servirsi di lei, mossi ora da pulsioni sessuali, ora dalla ricerca di una consigliera sentimentale per le relazioni che intrattengono con altre donne. Da uno di questi è definita una ragazza «riposante», perché a lei tutto va sempre bene: Adriana fa finta di offendersi, ma in fondo accetta quel giudizio che non comprende del tutto. La protagonista attraversa la vita con un candore naif, perennemente distratta da cose di poco conto e perciò incapace di trattenere tra le mani un qualcosa che le restituisca il senso delle sue azioni; perfetta risulta, dunque, la scelta come colonna sonora della canzone di Sergio Endrigo Mani Bucate. Con la stessa velocità con cui si innamora, Adriana cambia in continuazione abiti e parrucche, come a cercare il volto giusto tra i tanti possibili della sua indefinita individualità, fino a quando, in una delle scene più famose del film, si svestirà del peso ingombrante dell’ipocrisia che ha indossato per tanto tempo abbandonandosi a un pianto di rassegnazione che le scioglie il trucco intorno agli occhi.

Con una compassione creaturale la macchina da presa segue questo passaggio dalla non conoscenza all’accettazione della verità su di sé da parte della protagonista, che attraversa un mondo che nello sfarzo dell’inutile e nell’ostentazione dell’effimero appare irriducibilmente “fluido”. Pietrangeli insiste ossessivamente nel proporre immagini d’acqua in movimento, dal mare che si infrange sulla spiaggia deturpata di Ostia nei titoli di testa del film all’incedere placido del Tevere, da una bottiglia di latte in frantumi, ricordo di una violenza sessuale subita, a una pompa per innaffiare le piante con cui la giovane si diverte a bagnare il suo condominio: l’intera esistenza di Adriana è chiusa nei termini di un’esperienza amniotica. La ragazza non è in grado di afferrare la vita, che la travolge senza bagnarla, non ha filtri nel suo rapporto con il mondo, ma ingurgita tutto coscientemente – ma non per questo con consapevolezza critica – senza trattenere nulla. Non è un caso, quindi, che l’inizio dell’apocalisse psicopatologica che la porterà a suicidarsi lanciandosi dal balcone del proprio appartamento si realizzi come un “parto” cinematografico.

Nel buio pesto di una sala in cui ha lavorato come maschera, attende ansiosa con le sue ex colleghe il numero del cinegiornale in cui dovrebbe essere proiettata una sua intervista che dovrebbe consacrarla pubblicamente come uno dei volti nuovi del cinema. Succede, però, l’irreparabile: l’agenzia pubblicitaria ha montato ad arte un filmato che propone una sua immagine caricaturizzata, mentre la voice over dichiara: «Speriamo che, essendo un’artista presa dalla strada, non finisca su un marciapiede», battuta accolta dagli spettatori presenti con un riso sarcastico. Dopo una vita in cui si è condannata alla dittatura dello sguardo altrui, ora Adriana compie quasi un rito di passaggio, dall’oscurità anestetizzante della volontà negata che ha caratterizzato la sua intera esistenza alla verità rivelata dai fasci di luce proiettati nella sala che le mostrano le brutture del suo presente.

La coscienza ritrovata, però, è per lei un peso insopportabile. Il suo campo psichico è travolto dalla sensazione lacerante di non corrispondere a quell’immagine che troppo genuinamente e troppo a lungo ha accettato per se stessa.

Si riaccendono le luci in sala. La nuova Adriana è venuta al mondo, ma per vergogna deve fuggirne via.

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