«Il problema è che quei film li hanno già girati e quei libri li hanno già scritti. Devi cercare il tuo soggetto da qualche altra parte, non lo troverai mai se resti chiuso in casa. […] Nessuno ti può aiutare. Devi trovarlo da solo». Queste sono le parole che Jafar Panahi, reinventatosi taxista per il film Taxi Teheran del 2015, rivolge ad un giovane aspirante regista che, dal sedile posteriore della vettura, gli chiede consigli su come trovare ispirazione per il suo primo lavoro cinematografico.
L’espediente narrativo della piccola videocamera digitale collocata sul parabrezza dell’auto, che cattura le esistenze dei passeggeri in transito, rende la condizione esistenziale del pluripremiato autore iraniano – condannato nel suo Paese, a causa delle sue posizioni antiregime, a sei anni di reclusione e al divieto per venti anni di viaggiare, produrre film e rilasciare interviste – un pretesto metacinematografico per la realizzazione di un’opera che, nella dialettica interno/esterno, si propone di indagare la macrostoria di una nazione stremata dalla dittatura attraverso le intime microstorie dei protagonisti. Il senso di claustrofobia che vincola la genesi dell’opera al tragico scenario sociopolitico, però, non limita Taxi Teheran dentro i confini di un racconto di vite schiacciate, ma sfrutta il suo statuto di film realizzato “di contrabbando” per problematizzare le dinamiche relazionali tra ambiente e personaggi: l’immagine-in-movimento del veicolo protegge la varia umanità che ci si affida per un breve percorso, in un dominio di sguardi tutto proteso all’esterno. La strada, infatti, si fa traccia materiale delle interazioni reali, lì dove l’impossibilità di mantenere intatto il nesso causa-effetto cede il passo alla sospensione di ogni giudizio su chi sono i martiri e chi i colpevoli, favorendo la riscoperta di una geografia empatica e plurale.
Esemplare, in tal senso, risulta la sequenza in cui un amico di vecchia data del protagonista, mostrando dal suo computer portatile il video di un’aggressione per furto subita poco tempo prima, confessa di essere riuscito a riconoscere il volto del ladro, ma di non aver avuto il coraggio di andare a denunciarlo perché ancora traumatizzato dalle immagini televisive di due uomini impiccati per l’accusa di estorsione. «Anche se tu ora non fai film, spero che un giorno un altro regista possa utilizzarlo come soggetto» si limita a dire lo stesso uomo a Jafar Panahi, come ad insistere sulla dignità di una storia personale che si scopre possibile solo nel dominio visivo della macchina da presa.
Sebbene le leggi iraniane intimino agli artisti di non mostrare la realtà se è «troppo brutta», la cine-verità di Taxi Teheran si esalta nella proliferazione di quei dispositivi elettronici che liberano le coscienze: in una prospettiva metanarrativa, ecco che si avvicendano il telefono cellulare che registra le ultime volontà di un moribondo disteso sul sedile posteriore, che lascia tutti i suoi averi alla moglie; i cd falsi di artisti locali e internazionali, altrimenti irreperibili, venduti da un ambulante a bordo strada; la telecamerina digitale con cui la nipote del regista deve realizzare un corto per la scuola secondo i parametri dell’autocensura imposta dal governo; i dvd di C’era una volta in America o Midnight in Paris, insieme ai film di Kurosawa e Kim Ki-duk, regalati da un curioso collaboratore di Panahi.
L’esistenza catturata nella sua segmentarietà dall’obbiettivo della macchina da presa, sembra suggerirci l’autore in questo atipico road movie, si riterritorializza nello spazio filmico, acquisendo una nuova intensità di significati, in una narrazione perennemente sospesa tra il pubblico e il privato. Appare esplicito come Taxi Teheran sia debitore dell’antecedente Dieci di Abbas Kiarostami del 2002, intima indagine ad episodi sul ruolo della donna nella società iraniana, in quanto entrambi i lavori propongono l’idea di un cinema perennemente in movimento, in cui il senso della vita è proprio in questo “continuare” inconcludente. Ad entrambi si riconosce quell’evidenza dell’immagine di cui parla il filosofo francese Jean-Luc Nancy in L’Évidence du film. Abbas Kiarostami: nella perseveranza del voler immortalare la «presenza invisibile del distinto», il cinema si fa evidente non nella pienezza dello sguardo, ma nel suo svuotamento, riuscendo, cioè, a consegnare il mondo esterno allo spettatore nella sua nudità di pellicula, per quello che realmente è. L’occhio del pubblico partecipa dello sguardo sul mondo di questi due registi, contribuendo a ordinare il reale per come esso è, fino ad essere chiamato direttamente in causa nelle sequenze conclusive di Taxi Teheran.
Una avvocatessa amica di Panahi, anche lei inibita dal codice disciplinare del Paese, sale a bordo del taxi per raccontare al regista lo sciopero della fame intrapreso per protesta da una giovane donna ingiustamente detenuta in carcere e le dichiarazioni estorte alla madre di costei da parte della polizia. Prima di scendere dalla vettura, la donna prende una rosa dal mazzo che ha con sé e la appoggia sul cruscotto dove è posizionata la videocamera del regista: «Questa la metto qui in onore del cinema. Sulla gente del cinema si può sempre contare».
Il pubblico può sempre contare sul cinema di Jafar Panahi.