Il cinema di Kiarostami fa allargare e riposare lo sguardo. Un’opera come “Il sapore della ciliegia”, che indaga l’infelicità, si presenta allo spettatore illuminante, intima, efficace. Il regista iraniano fa luce sul dolore per affrontarlo, non per renderlo assoluto; si sofferma sulla “bellezza” di tutte quelle piccole che – in modo banale – sono state valorizzate tante volte attraverso il Cinema ma non solo. Quelle “piccole cose” di Kiarostami, però, sono inserite in un contesto adeguato ad un’idea “minimalista”; è il tempo stesso del film a sembrare “piccolo”, nonostante gli spazi, perché scorre lentamente, lasciando che i pensieri si (ri)ordino. In un tempo che lascia così tanto spazio alla riflessione, in cui non si vive la frenesia di una vita in cui non ci si ferma mai, “piccole cose” come osservare un tramonto, apprezzare una pianta, assaporare una ciliegia, acquisiscono un altro valore. Proprio mettendole in discussione si elevano; insistendo sulla “banalità” della loro presenza nel mondo, cambiano connotazione diventando necessarie, persino essenziali. Kiarostami approccia al tema del suicidio non ponendosi in una posizione di “superiorità”: non si mostra scostante, distaccato o – addirittura – forte al punto da non soffrire. “Il sapore della ciliegia” è un’opera che colpisce ma che al tempo stesso accoglie le sofferenze provando ad analizzarle. Che non lascia soli “faccia a faccia” con la sofferenza, che accompagna e segue lo spettatore nel suo percorso di auto-analisi.
Protagonista della vicenda è un uomo apparentemente solo che vaga per la città di Teheran in automobile, in cerca di qualcuno disposto, dietro compenso, ad aiutarlo a compiere un suicidio. Non si sa se, il fatto che ricorri a sconosciuti voglia dire che non abbia legami, o è proprio perché ne ha che si rivolge a chi non lo conosce e che, quindi, non può soffrire per la sua perdita. Le persone in cui si imbatte, però, sono restie ad aiutarlo, nonostante lui spieghi come la parola suicidio “non sia stata inventata solo per il dizionario, ma perché da qualche parte deve avere un’applicazione, e l’applicazione è “qui ed ora”. Prova a convincere garantendo ingenti compensi, addirittura supplica, prova a suscitare empatia, a cercare sofferenze “simili” su cui fare leva. Fino a quando incontra una persona che – senza provare necessariamente a dissuaderlo – gli racconta la sua esperienza personale e gli fornisce un’idea di mondo “diverso”. Gli spiega, cioè, che anche lui ha provato a suicidarsi ma di come ha, poi, cambiato modo di pensare. Da quel momento ha cominciato a (ri)apprezzare i “gelsi” (un qualcosa apparentemente privo di valore), e gli chiede se è disposto realmente a rinunciare al giallo e al rosso del sole al tramonto, alle stelle al chiaro di luna, al sapore della ciliegia.
Il modo di pensare cambia il modo di guardare il mondo. Un concetto tanto semplice quanto difficile da attuare. Non si tratta di trasmettere un messaggio “astratto” che non trova una sua concretizzazione, quanto piuttosto di insistere su tutto quello che sembra essere “normale” ma non lo è. Una persona che fornisce un punto di vista diverso sulle cose non è una cosa “normale”, perché quello sguardo nuovo mette in moto emozioni, prospettive ed speranze nuove. Certo, non si può pensare che basti parlare con qualcuno per cambiare modo di guardare le cose. Kiarostami non cerca soluzioni “finali”, non vuole proporre metodi “semplici ed ottimistici” per approcciare alla vita; anzi, indaga le emozioni per comprenderle ed analizzarle. Non insiste sul bisogno di trovare sollievo nella morte come ha fatto Sofia Coppola due anni dopo ne “Il giardino delle vergini suicide”; si sofferma, invece, sulle interazioni umane che possono modificare la possibilità di compiere una scelta. Il fatto che la storia si svolga in macchina, poi, aiuta la riflessione “lenta e accurata”: ne è una prova “Drive my car”, l’ultimo film di Hamaguchi “svuotato” di parole e capace di fornire un nuovo senso ai silenzi.
“Il sapore della ciliegia” è un’opera essenziale e rigorosa, che commuove, spaventa, aiuta a non perdersi. Kiarostami dà voce ai suoni, ai sapori, alle percezioni. Non è obbligatorio darsi risposte: come ogni personaggio anche lo spettatore si chiede se è giusto aiutare o no una persona a morire.