THE BROWN BUNNY: L’OSSESSIONE DI UN AMORE/L’OSSESSIONE DEL CINEMA DI VINCENT GALLO

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Nevrotico, allucinatorio, delicato: Vincent Gallo ha costruito un’idea di Cinema “autoptico”, che prima aderisce al corpo e poi lo penetra, facendo in modo che emergano vulnerabilità e storture. Ed è un Cinema che pervade lo spettatore “obbligandolo” ad adeguarsi al ritmo lento e allucinatorio della narrazione. 

C’è un bisogno di aiuto e di ascolto espresso (e non è la prima volta per Vincent Gallo) in “The Brown Bunny”, film “scandalo” che ha suscitato reazioni discordanti a Cannes per la (neanche troppo (?) lunga – ma sicuramente dettagliata – scena finale di sesso orale. Ma non si tratta della prima indignazione a Cannes. E Lars Von Trier e David Cronenberg ne sanno qualcosa. La critica, poi, si è accanita anche verso il fastidio generato dalla quasi totale assenza di dialoghi, che rendono, in qualche modo, il film incompiuto. Per Gallo, però, è molto più importante ricavarsi un suo spazio “privato”, facendo in modo che il Cinema diventi un tutt’uno con l’esistenza. Questo approccio viscerale, troppo “nudo”, può non convincere. Ma è sicuramente sincero, diretto, incisivo. Soffermarsi su una scena che necessita di essere così palesemente esplicita, senza comprendere il suo essere, appunto, funzionale all’interno della narrazione, vuole dire – forse – alimentare una polemica sterile sulla volgarità, il decoro, l’ipocrisia. 

Protagonista della pellicola è un campione di motociclismo che sente il bisogno di risolvere i suoi conflitti interiori viaggiando verso la California. Si tratta, quindi, di un “road movie emotivo” in cui ogni tappa rappresenta una progressiva presa di coscienza, culminando nell’ultima che potrebbe – erroneamente – essere vista come una completa distruzione di quelle precedenti, ma che rappresenta, invece, l’urgenza di rendere vivo il proprio delirio. Far sì che si realizzi almeno nella propria mente, così da poterne sentire l’intensità sulla propria pelle. Sul proprio corpo. Vincent Gallo interpreta un uomo solo, che procede con il suo ritmo lento e nevrotico e chiede – come in “Buffalo ‘66” – alle donne che incontra di stargli vicino, sperando, così, di dimenticare il suo unico e vero amore, Daisy. Procede incontrando altre anime perse come lui, che provano a tendergli una mano, ma la sua sofferenza è troppo profonda per essere risolta colmandola di altri vuoti. 

In “The Brown Bunny” è tangibile il bisogno di essere salvati; è evidente come il protagonista tenti di redimersi e di porre fine al suo dolore dando libero sfogo ai suoi pensieri alterati. È paradossale, allora, come si possa ridurre tutto ad un atto sessuale: Vincent Gallo realizza un’opera tormentata e suggestiva, in cui lo spettatore può sentirsi autorizzato a manifestare la propria solitudine e la propria malinconia. È necessario credere che ci si possa redimere, nonostante le esasperazioni, le ossessioni e le prove di narcisismo di un personaggio controverso come Vincent Gallo.