OUTSIDE NOISE: RICONNETTERSI ALLA VITA LENTAMENTE, ASPETTANDO DI ACCETTARSI

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È paradossale (ma neanche troppo) pensare che un film di un’ora e un minuto proceda a passo lento, senza “fretta”. Che indugi su momenti “piccoli”, su notti insonni, su sguardi disorientati, sul buio e la luce che si alternano e creano disagio. Le protagoniste della pellicola di Ted Fendt sono tre ragazze con un’identità “provvisoria”, che ricordano i protagonisti di “Parigi 13Arr.” di Jacques Audiard, alle prese con la precarietà del lavoro, i legami fragili e gli “amori liquidi” raccontati da Bauman, plasmati da una società che si rifiuta di instaurare relazioni “stabili” perché incapace di gestire gli oneri e le tensioni che comportano. Vivere nell’incertezza significa non entusiasmarsi, rimanere in una condizione di insoddisfazione che crea ansie e fa sentire inadeguati. La notte diventa il momento più difficile, quello che si vorrebbe passasse subito così da poter iniziare un’altra giornata. In modo da avere continue ripartenze, senza indugiare nei momenti più difficili, in cui non si riescono a tenere da parte le preoccupazioni su di sé. La notte è un ostacolo per chi vive questa condizione: troppo lunga, troppo statica. “Non vedo l’ora di svegliarmi ed essere piena di energie per mettermi a scrivere”, dice una delle ragazze, come per farsi un augurio, per incoraggiarsi a superare quel momento e ripartire. 

Sembra che la pellicola giri a vuoto, non arrivando mai da nessuna parte, ed è questo quello che la rende estremamente poetica e reale. Non c’è un punto di arrivo, e il senso di questo vagabondare è rappresentato dal fatto che le ragazze stanno attraversando un rito di passaggio scandito in alcune fasi. Non sanno a cosa appartengono né dove si trovano: tutto va nuovamente classificato. Solo in questo modo ci si può riconnettere alla vita. Non è vero, forse, che siamo tutti, in fondo, in un rito di passaggio? “Forse tutti stanno cercando di capire come si fa”, dice una delle protagoniste. Ted Fendt – che compare anche goffamente in una scena – segue dei ritmi contemplativi, dando modo e tempo allo spettatore di prendere consapevolezza di sé e di confrontarsi (come termine di paragone per analizzarsi, non in modo competitivo) con i tormenti interiori delle protagoniste. “Outside noise” sembra non muoversi mai, nonostante ci porti tra Berlino a Vienna e ci parli di New York; si tratta, però, di una staticità voluta, indotta per soffermarsi a riflettere su quanto i tempi lenti siano, in realtà, tempi “pieni”. Il regista (scrittore e proiezionista) suggerisce l’idea (non convenzionale) che giornate vuote non siano realmente tempi morti, ma, semmai, la rappresentazione di un tempo “sospeso”, una realtà preziosa. 

La pellicola ci riporta alle scene di vita quotidiana descritte da Éric Rohmer (rielaborate, in parte, da Richard Linklater) in “Reinette e Mirabelle”, a quella prolissità da approfondire, all’analisi di quella zona “magica” intermedia tra la notte e il giorno in cui il silenzio regna assoluto. A dimostrazione del fatto che si può rendere magico un momento talmente usuale da risultare quasi banale, che si può rendere sublime un’azione ordinaria (o anche soltanto una finestra di una stanza dove due amiche conversano guardando quello che accade fuori), che semplici conversazioni possono generare complicate interazioni. Ted Fendt ci consente di affrontare l’insonnia attraverso la “bellezza”, le chiacchierate sull’arte, i libri, i musei. E ci racconta delle grandi verità, come quelle riguardanti il lavoro: “Ho sentito di dovermi candidare solo perché ho bisogno di soldi, ma è un lavoro salariato qualsiasi”, confida una delle tre ragazze. Perché è legittimo – ed è sano – sentirsi in dovere di accettare un lavoro perché si ha bisogno di mantenersi e ci si può anche sentire insoddisfatti della propria scelta. Per combattere la sensazione di spaesamento, e per concedersi un attimo di “tregua”, ci si affida, poi, all’amicizia. Vagare senza meta acquista tutto un altro significato. E – ed è questa, forse, la cosa più importante – se anche non dovesse averlo andrebbe bene lo stesso. La consapevolezza può essere anche lenta, non per forza immediata. Si può scegliere di aspettare l’autunno per leggere un libro, o ammettere di non conoscere le poesie di Ingeborg Bachmann; ci si può sentire insicuri, inadeguati, insoddisfatti. Ma c’è tempo per definirsi: senza fretta. 

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