Il 1959 è stato un anno fondamentale nella storia del cinema. È stato l’anno de “I quattrocento colpi” di François Truffaut, di “Hiroshima, mon amour” di Alain Resnais, di “Intrigo internazionale” di Alfred Hitchcock e de “La grande guerra” di Mario Monicelli. Ed è stato l’anno di “Diario di un ladro” di Robert Bresson, un regista “minimalista”, che ha sempre ricercato ed ottenuto un grande rigore depurativo: ha sempre rimosso quanto riteneva superfluo riguardo a ciò che voleva esprimere.
“Diario di un ladro” è una storia raccontata dal protagonista stesso (Michel, interpretato da Martin Lassalle) che legge il suo diario: dopo alcune titubanze iniziali, si dedica al borseggio che considera una manifestazione di astuzia e abilità e il suo modo di placare il proprio tormento interiore. Il suo modo di autoaffermarsi. Dopo diversi furti, viene catturato dalla polizia e, trovandosi in carcere, si rende conto che l’amore che prova per una ragazza può dare realmente un senso alla sua esistenza.
Bresson precisa l’intento del film sono dai titoli di testa: “Questo non è un film poliziesco. L’autore vuole esprimere, attraverso immagini e suoni, l’incubo di un giovane uomo spinto dalla sua debolezza al furto, per il quale non è tagliato. Solamente quest’avventura, attraverso sentieri sconosciuti, riunirà due anime che, senza di essa, non si sarebbero probabilmente mai conosciuti”. Come poter ritenere il furto capace di legare due persone? Immaginando come il superamento degli impulsi negativi riesca a far emergere l’importanza dell‘amore. Però, si tratta di una concezione di amore che si enfatizza in un delirio narcisistico: l’ego dell’uno si rispecchia in quello dell’altro in un’esaltazione reciproca. Bresson, con “Diario di un ladro”, ha realizzato – volutamente e inconsciamente – un’opera “non politicamente corretta” e scabrosa, in cui l’amoralismo cinico si impone con prepotenza. Il furto, che prima si presenta come una necessità e poi come una vocazione, rappresenta l’inquietudine interiore del protagonista che, solo grazie all’amore riuscirà poi a riscattarsi. Bresson, portando avanti un’idea di cinema esistenzialista nei contenuti e minimalista nella messa in scena, sospende ogni giudizio morale per focalizzarsi sul bisogno di Michel di riappacificarsi con se stesso, di acquisire fiducia e di trovare la propria pace spirituale. “Diario di un ladro” mette in scena l’inquietudine, l’angoscia e la solitudine. Nonostante gli atti molto discutibili che compie, Michel non è il “solito ladro”: è l’espressione di un’anarchia esistenziale, di un gesto rivoluzionario individuale, dell’affermazione di scaltrezza ed intelligenza.
Bresson, con una regia controllatissima e raffinata, si serve del furto per raccontare delle “performance artistiche”; si focalizza sul vuoto esistenziale di una vita solitaria e senza scopo che cerca nell’amore un’alternativa all’apatia; si concentra su un personaggio intrappolato tra gli opposti automatismi dell’integrazione e della rivolta. Michel non sa resistere alla tentazione di rubare. Che cosa vuole cercare? Probabilmente se stesso: sente la necessità di affermare la propria individualità. Con Bresson il cinema si erge ad un nuovo livello di immagine e suono, tutto ciò al fine di rendere pura l’opera realizzata. Si avverte una sensazione di liberazione catartica.