“Sono felice”, “Provo gioia”, “Sei triste?”, “Voglio provare ancora felicità”: queste frasi si ripetono costantemente nell’opera di Agnès Varda contraddistinta da colori allegri, prati fioriti, sorrisi e – soprattutto – amore. C’è tutto, però, tranne che la felicità. Oppure, quella che intendiamo come felicità è, forse, soltanto egoismo.
Un uomo felicemente (la parola “felicità” si ripete continuamente) sposato si innamora di un’altra donna. Se inizialmente si dimostra attento a nasconderlo alla moglie, in un secondo momento cerca di convincerla ad accettare che abbia un’altra relazione, senza infrangere il matrimonio. La donna finge di accettare (“Ti amo di più, perché ora sei ancora più felice”), ma in realtà, per lei, è una situazione impossibile da tollerare.
Quello che sembra essere un idillio d’amore nasconde una realtà terrificante. Sembra assurdo pensare che un qualcosa di così terribile avvenga tra girasoli, bambini che giocano, amanti che si professano amore eterno. Che forma ha la felicità? Si tratta di libertà? Una donna che non accetta che il proprio compagno sia felice è egoista o è il marito ad essere egoista solo per averle proposto un rapporto libero? La “madre” della Nouvelle Vague dipinge – come farebbe un bambino – un’opera in cui si avverte il peso delle rivendicazioni femminili. Eppure, nel momento in cui le chiede di accettare la relazione con un’altra donna, François lo fa con schiettezza, come se questo potesse discolparlo. La regista mette in scena un matrimonio davvero autentico, quello che per chiunque rappresenta l’emblema della felicità. Quell’immagine “perfetta” si rompe e viene svelata la realtà. Ed è qui che la regista mostra la sua abilità nel sapere instillare il dubbio: che cosa è successo realmente a Thérèse? Si tratta di una tragedia, di un atto di ribellione o di un semplice incidente? Una cosa è certa: tutti sono rimpiazzabili. Per François l’appagamento è un diritto inalienabile: il suo idillio non può rompersi, ma al massimo modificarsi per poter esistere ancora. Ecco allora che la regista afferma la sua idea di femminismo, rappresentando – con dolore – le sofferenze di una donna privata della propria identità, capace di occuparsi della casa ma meno “brava” nelle vicende sessuali (a detta del suo compagno).
“Il verde prato dell’amore” (“La bonheur” è il titolo originale) è un’opera che “delicatamente” colpisce. Lo fa con delicatezza perché mantiene colori vivaci, paesaggi meravigliosi, primi piani estasiati; ma colpisce per come distrugge un’idea di felicità che si riteneva reale. La “felicità” si legge sui visi, nei gesti e nelle parole. La primavera sorride, l’estate avanza. Non sembra esserci nulla di più perfetto. Agnès Varda – con uno stile anarchico – indaga spietatamente sulla costruzione e – soprattutto – sulla distruzione di un microcosmo familiare. Lo spettatore avverte un disagio quasi insopportabile scaturito da quel bisogno di possesso che François ritiene di dovere esercitare (“Io non prendo niente a te, vedi?”): quando tutto scoppia non c’è più colore o rumore. Dal bisogno di possesso si passa solo al bisogno di sostituzione. Ed è così che “Il verde prato dell’amore” diventa un film brutale che mostra come quella che sembra essere la normalità nasconde un’oscurità inimmaginabile.